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Fatal Fury compie trent’anni e ci ricorda con affetto la storia della volpe e l’uva | Racconti dall'ospizio

Fatal Fury compie trent’anni e ci ricorda con affetto la storia della volpe e l’uva | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Quando mi è stato chiesto di scrivere un articolo per il trentesimo anniversario di Fatal Fury, dopo aver realizzato con piacere di aver raggiunto l’età minima per l’Ospizio, ho accettato più che volentieri. A bocce ferme, però, ho ricordato di aver avuto un rapporto complicato con la celebre saga SNK, imparando ad apprezzarla solo molti anni dopo l’uscita del primo episodio.

Ecco perché la stesura di questo pezzo non è stata facile. È stata a una specie di lunga seduta dallo psicologo, per comprendere e accettare il profondo senso di invidia provato per anni nei confronti dei possessori del Neo Geo, limousine delle console casalinghe, nonché unica opzione sensata per replicare in casa propria l’esperienza della sala giochi.

Nel 1991 ero rimasto folgorato da Street Fighter II, il gioco di combattimento con cui Capcom mi ha letteralmente cambiato la vita. Nello stesso anno, SNK aveva fatto uscire il primo Fatal Fury, nato dalla mente geniale di Takashi Nishiyama, papà del primo Street Fighter. Per competere sul ring dei picchiaduro a incontri, SNK aveva assunto molti ex dipendenti Capcom, strategia che ha ripagato l’azienda con oltre un decennio di giochi di indimenticabili.

Con il primo Fatal Fury, l’approccio andava oltre le classiche sfide competitive, offrendo anche la possibilità di sfidare la CPU insieme a un amico, successivamente ripresa da Capcom nelle Dramatic Battle di Street Fighter Alpha. A questo si aggiungeva la presenza di un secondo piano di profondità, che di fatto limitava lo zoning con i proiettili e aumentava le possibilità offensive e difensive.

La copertina del primo Fatal Fury sembrava la locandina di un film di arti marziali e si concentrava sui tre protagonisti. Quando la vidi per la prima volta, l’impatto fu devastante.

In più, la modalità single player raccontava una storia ben più corposa di quella appena abbozzata in Street Fighter, con un world building eccezionale per un videogioco arcade. Oltre a dover affrontare il leggendario Geese Howard (già allora rottissimo e meritevole delle bestemmie più creative), il gioco permetteva di venire alle mani con personaggi molto particolari, caratterizzati da strategie che andavano oltre il banale uso delle arti marziali.

Hwa Jai, praticante di Muay Thai tradizionale, era un combattente piuttosto debole, che diventava quasi imbattibile dopo aver bevuto una dose generosa di sake. Il centenario Tung Fu Rue era un “omaggio” al maestro Roshi di Dragon Ball, con tanto di trasformazione nella sua versione palestrata. Billy Kane faceva il gradasso finché impugnava il suo bastone, ma si chiudeva in difesa piagnucolando appena veniva disarmato.

Questi particolari, uniti a una grafica spaziale e a una colonna sonora da urlo, rendevano Fatal Fury un cocktail difficile da ignorare per chiunque mettesse piede in una sala giochi all’inizio degli anni Novanta. Per qualche strano motivo, però, il primo Garou Densetsu non mi fece esplodere il cervello come Street Fighter II. Il secondo livello di profondità non era nelle mie corde e dell’intero cast apprezzavo ben pochi personaggi. Dopo aver visto Chun-Li mandare al tappeto colossi come Zangief, inoltre, non ero disposto ad accettare un gioco di combattimento senza lottatrici femminili.

La “copertura” per la mia invidia era a prova di bomba, e la storia della volpe e l’uva mi permetteva di dormire sereno senza pensare ai fortunati possessori di un Neo Geo, che giocavano alla versione arcade perfect di Fatal Fury nella comodità delle loro camerette.

No, le conversioni per Super Nintendo non si avvicinavano lontanamente agli originali su Neo Geo. Ma all’epoca non volevo accettarlo.

Purtroppo per me, con l’uscita di Fatal Fury 2, il piano anti-invidia iniziò a scricchiolare. In appena un anno, SNK era riuscita a migliorare ogni singolo elemento del primo Garou Densetsu, replicando di fatto l’offerta ludica di Street Fighter II.

Si poteva scegliere tra otto personaggi giocabili (tra cui anche la “generosa” Mai Shiranui) ed erano presenti quattro boss controllati dalla CPU. L’unico neo era l’assenza di Geese Howard, sostituito dal meno iconico Wolfgang Krauser (uscito da una puntata di Hokuto No Ken).

La giocabilità era fluida, le ambientazioni spettacolari, le musiche eccellenti. Certo, continuavo a non apprezzare il secondo livello di profondità, ma nonostante questo, non avevo più abbastanza elementi per portare avanti la teoria dell’uva acerba.

Arrivai perfino ad acquistare la (zoppicante) conversione di Fatal Fury 2 per Super Nintendo, realizzata da una Takara in grande spolvero, che ce la mise davvero tutta per compiere un’impresa impossibile. Nel 1992 ero un giovane quattordicenne squattrinato, e non potendo permettermi un Neo Geo mi convinsi che, tutto sommato, la conversione per il 16-bit Nintendo rendeva giustizia al gioco originale, riuscendo così a superare anche il periodo di Garou Densetsu 2.

Portai avanti la medesima pantomima anche con Fatal Fury Special, uno dei capitoli migliori dell’intera saga. Un gioco dal gameplay raffinato e con un cast di personaggi per tutti i palati. Anche in quel caso, la conversione per Super Famicom riuscì in qualche modo a contenere un’invidia sempre più gonfia e pronta a esplodere.

Poi, qualcosa cambiò. SNK iniziò a proporre titoli con una grafica sempre più incredibile e dal peso sempre più corposo. Finché rimasi ancorato al Super Famicom, il mio rapporto con la serie si arrestò bruscamente, e anche quando passai al Sega Saturn (che con il 2D era un simpatico MOSTRO), ignorai bellamente i nuovi capitoli della serie, concentrandomi sulle innumerevoli uscite Capcom.

L’amore con Fatal Fury sbocciò nuovamente con Garou: Mark of the Wolves su Dreamcast, con cui passai momenti eccezionali insieme agli amici, alternandolo a Street Fighter III: Third Strike di Capcom. In cuor mio mi ero finalmente reso conto di quanto le due aziende rivali mi avessero dato nel corso degli anni. Ero felice, ma sentivo che mancava ancora qualcosa.

Non sono mai stato un giocatore PC e ho sempre smanettato poco con gli emulatori. Nonostante questo, ogni volta che avviavo il MAME, facevo volentieri un giro nella sezione dedicata ai giochi di combattimento, colmando le lacune di un passato da fanboy Capcom.

Blue Mary è uno fra i miei personaggi preferiti di Garou Densetsu. Giuro che non è per la scenetta del ring out in Fatal Fury 3!

Approfondendo, ho quindi scoperto che la serie The King of Fighters è strettamente legata a Fatal Fury. È stato in Garou Densetsu, infatti, che si è svolta la prima edizione del celebre torneo. Inizialmente era una competizione limitata alla città di South Town (dove si svolgevano anche le vicende di Art of Fighting), ma quando Wolfgang Krauser ha ereditato le redini dell’organizzazione, ha preferito impostarla su scala globale, accogliendo anche combattenti stranieri come Kim Kaphwan.

Il sequel che SNK potrebbe salvare dall’oblio, convertendolo in un orrore poligonale a buon mercato. Rabbrividiamo.

L’aggiunta di Ryo Sakazaki come personaggio segreto in Fatal Fury Special ha fatto il resto. Ecco perché da Fatal Fury 3 la storia si è allontanata dalla routine del torneo, per concentrarsi sulle vicende personali dei vari personaggi. Un cambio di rotta importante che, dopo i capitoli della serie Real Bout (legati al filone di Ryuji Yamazaki e dei gemelli Jin), ha dato vita a quel gioiello di Mark of the Wolves, finalmente privo del secondo livello di profondità e dove un Terry Bogard ormai adulto aiutava il figlio di Geese Howard a trovare informazioni utili sulla propria famiglia (il fatto che gli avesse ucciso il padre era secondario. Vai a sapere).

SNK aveva anche portato avanti lo sviluppo di Mark of the Wolves 2, di cui sono trapelate alcune informazioni insieme ai bozzetti dei nuovi personaggi, ma sfortunatamente il gioco non ha mai visto la luce. Ed è un vero peccato, perché il sistema di combattimento del primo Mark of the Wolves è ancora oggi uno dei più interessanti in circolazione e sarebbe stato bello assistere al suo diretto sviluppo.

Quella che stiamo festeggiando oggi, quindi, è una serie che merita di essere riscoperta e approfondita. Per farlo, potete affidarvi al mai troppo lodato MAME, alle numerose raccolte pubblicate nel corso degli anni su vari sistemi, o alle scarne conversioni ACA Neo Geo presenti su diversi store online. Poi ci sono i vari manga e anime prodotti nel corso degli anni, ma per recuperarli dovrete affidarvi al dio dell’Internet, o al buon cuore di qualche accatastatore seriale (scrivetemi).

Personalmente, da quando per gentile concessione di mia moglie ho finalmente portato a casa un cabinato Neo Geo, ho il piacere di godermi l’esperienza originale in tutto il suo splendore. Postazione arcade, tubo catodico e cartucce MVS “battezzate dai topi”. Nella mia personalissima rotazione, Real Bout 2 e Mark of the Wolves finiscono spesso e volentieri nella base MVS, permettendomi di passare nel migliore dei modi le pause dal lavoro.

Brindo quindi a te, Garou Densetsu, nella speranza che dopo aver riesumato Samurai Shodown la pigra SNK decida di rispolverare un vecchio campione che avrebbe ancora tanto da dire. Tra i personaggi mai approfonditi di Real Bout 2 e il cliffhanger di Mark of the Wolves, c’è abbastanza materiale per un ritorno in grande stile. Possibilmente in 2D (sì, lo so. Lasciatemi sognare).

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