Outcazzari

Di Shelter 2 e del perché i figli fanno più paura dei soulslike

L'ultimo grido del game design, per i gamer duri e puri, è la difficoltà. Soulslike, roguelike, permadeath e muri di proiettili sono gli ingredienti più cool per fare leva su chi non è un filthy casual con le dita incollate all'iPhone. Ma a me la difficoltà non fa paura. Io sono cresciuto nell'era dei mangiagettoni, sono allenato, sono preparato psicologicamente: il mio alter ego digitale è forte, muscoloso e coraggioso. Ama le sfide, non teme la morte ed è pronto a rischiare la scorza nel nome dei punti esperienza. Poi arriva Shelter, e al mio mago-guerriero di trentaseiesimo livello tremano le gambe. Shelter è un giochino indie, di quelli dal look bucolico, con le musichine belle e la classica estetica da disco post rock. Una natura rigogliosamente low poly, con una direzione artistica tanto semplice quanto ispirata e un'idea di game design diabolica: la maternità. Nel primo episodio si interpretava una mamma tasso intenta a proteggere i suoi piccoli dai predatori, mentre nel secondo, il protagonista di questa recensione, si sale di qualche anello della catena alimentare e si interpreta una lince. L'obiettivo è crescere i propri cuccioli, dalla nascita all'età adulta, cercando disperatamente di evitare che vengano sbranati, che muoiano di fame, che si facciano i tatuaggi e che inizino a drogarsi.

https://youtu.be/Tk-1M1wNVDY

La parte strettamente ludica di Shelter 2, per quanto tangibile e presente, è soltanto lo strumento usato da Might and Delight per creare l'emozione, la tensione, la paura. Cacciare un coniglio con una velocissima lince non è difficile, ma come vi sentireste sapendo che se non trovate abbastanza prede, magari per colpa dell'inverno, uno dei vostri cuccioli potrebbe morire di fame? Un momento sei lì, seguito dalla tua tenera cucciolata che trotterella per stare dietro alla mamma, e all'improvviso ti giri e manca qualcuno all'appello. In lontananza si sente un miagolio straziante: il piccolo non si muove. È vulnerabile ai predatori. Dev'essere terrorizzato. Cosa gli sta per succedere? E allora corri, veloce come il vento, afferralo per la collottola e portalo in un luogo protetto, per quanto sia possibile, e poi via, alla ricerca disperata di qualcosa da mangiare. Quello non è un mucchio di poligoni: è un cucciolo di lince che abbiamo portato in grembo, al quale abbiamo dato un nome, al quale ci siamo affezionati. Non può morire. Il concetto di savegame non ha nessun significato, perché se muore adesso, il dolore sarà vero, per quanto digitale.

Shelter 2, come il suo predecessore, usa il game design per per catturare un'emozione che è difficile raccontare a parole. Ho trentadue anni, non ho figli e non prevedo di averne a breve, e Shelter mi ha fatto capire che la paternità è un'esperienza sconvolgente, che il mondo non guarda in faccia a nessuno e che nulla fa più paura del male dal quale non si possono proteggere i propri cari. Chi ha il cuore montato al contrario potrebbe dirvi che Shelter 2 ha un mondo di gioco troppo vuoto, che le azioni sono ripetitive e che il passaggio alla struttura open world sottrae un po' di ritmo all'esperienza di gioco: è tutto vero, ma se notate solo quello avete ufficialmente giocato a troppi videogiochi.

Ho giocato al primo Shelter nel mesozoico superiore, quando giopep mi ha proposto di recensirlo. Il mio articolo ha tardato al punto che è uscito Shelter 2, che mi sono sparato in uno struggente pomeriggio con un codice ricevuto da giopep, che a sua volta l'avrà ricevuto dal vecchio saggio della montagna (o dagli sviluppatori, una delle due). Nonostante la relativa semplicità del gameplay, non sono riuscito a giocarlo tutto di un fiato. Troppo intenso, troppe emozioni, troppa paura.

Voto:
9 preservativi su 10
Old! #107 – Aprile 1985

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Racconti dall'ospizio #17: L'ultima onda

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