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Arenarmi m’è dolce su questa Spiaggia

Arenarmi m’è dolce su questa Spiaggia

2020: l’anno del Contagio, che pare un film di Kubrick.

L’anno della Pandemia, del lockdown. L’anno del Covid, l’anno che faremo fatica a dimenticare nonostante non sia sostanzialmente successo nulla di rilevante alle nostre vite, se non la cosa più simile ad una catastrofe collettiva che la nostra generazione abbia affrontato.

Sono disparati i modi con i quali titolare il 2020. Credo che pochi avranno una connotazione positiva. Ce la siamo vista indistintamente brutta tutti, chi per un motivo e chi per un altro. Sono sicuro che anche i videogiocatori più incalliti, culturalmente abituati ad un approccio alla vita di tipo virtuale, abbiano avuto le loro beghe.

La pressione psicologica ha colpito unilateralmente. Capita così, quando una condizione, da libera scelta, si trasforma in obbligo. Si inizia a dare il peso alle piccole cose, agli automatismi. Perché nessun uomo è un isola, nemmeno un videogiocatore.

La straordinaria predittività delle titolazioni italiane post-Odissea nello spazio.

La tanta detestata routine era una rete di sicurezza che teneva insieme il tempo e i giorni, potevi sapere che giorno fosse senza guardare il calendario, solo in base agli appuntamenti della settimana, che tenevi a mente appunto in virtù di quello stesso ordine ciclico mentale. È stata la prima cosa a sparire e, come la sopracitata rete di sicurezza, non è stata una liberazione, come si è spesso fantasticato, ma un peso. Così abbiamo passato un sacco di tempo a inventarcene una nuova, di routine, abbiamo fatto sempre le stesse cose agli stessi orari, negli stessi giorni. Abbiamo intessuto una nuova rete, provvisoria ma psicologicamente efficace, a patto di guardarla da una distanza sufficiente, affinché non si vedessero nodi non proprio fatti a regola d’arte e non ci si cadesse sopra da un’altezza troppo alta.

Così per i videogiochi. La forzata rimodulazione del tempo libero si è abbattuta sulle meccaniche ludiche. Per me, la caccia alle fiale di sangue, essenziale per la prosecuzione di Bloodborne, è divenuta di un peso insostenibile: volevo andare avanti, avevo bisogno di progredire, di portare avanti la storia, di sconfiggere l’ennesimo, enorme, mostro orribile. Era l’appagamento di cui avevo bisogno, il senso di progressione era confortante, perché arginava la staticità del reale.

Tornare indietro in un punto definito della mappa per ripetere le stesse uccisioni meccanicamente, contro mostri che meccanicamente ti vengono addosso dalle stesse direzioni, dicendo le stesse cose, mi stava asfissiando, non riuscivo a concentrarmi più, avevo perso la gioia della Caccia. Qualcuno, qui, potrebbe obiettare che avessi accusato il livello di difficoltà, ma non è così: una sfida ardua, un nuovo ambiente da esplorare, un’oscena deformità cosmica sarebbero stati ben accetti. Fissare una nuova anatomia immonda scatena sensazioni estremamente vicine al sublime, il terror panico.

Più o meno, ancora da queste parti.

No, decisamente la Caccia aveva smesso di funzionare.

Death Stranding è entrato a gamba tesa nel backlog, nonostante il mio infelice rapporto con Kojima. Non ci siamo conosciuti bene negli anni migliori, perché appartenenti a mondi distanti che non si sono mai incontrati.

Con Metal Gear Solid V, non ha funzionato, lo scollamento tra “missioni” e “storia” era troppo grande per me, il mondo di gioco un po’ troppo vuoto, la gestione della base più un peso che altro.

Guardavo Death Stranding con la curiosità con la quale si guarda un edificio modernista da fuori, cercando di capire la sua vita all’interno.

È stato diverso.

Non sono un amante del trekking ma.

Il Mondo che si apre davanti all’ignaro giocatore di Death Stranding è spiazzante. Se ci si ha giocato durante la pandemia, è spaventosamente realistico. Ci troviamo in America post-apocalittica, ma l’apocalisse non si è abbattuta sul mondo da un giorno all’altro, è un’apocalisse lenta, che logora il mondo lavorandolo ai fianchi.

Persino il tempo è impazzito, bloccato in un loop infinito nel quale, e non credo sia casuale, non c’è alternanza giorno/notte. Il tempo, letteralmente, “piove” con la cronopioggia, invecchiando persone e oggetti di anni nel giro di secondi. E mentre infuria la bufera, riemergono i fantasmi dei morti che non riescono a raggiungere l’aldilà, le invisibili Creature Arenate che insistono nei luoghi dove si è concentrata la morte.

L’intensità delle piogge è sempre coincidente con luoghi di un disastro di cui vediamo solo le rovine e udiamo le storie, raccontate per bocca (o per mail) dagli altri personaggi. Tutto ciò che una volta era esterno, la vita di superficie come la conosciamo, si è spostato nel sottosuolo. Le città che incrociamo non le attraversiamo per davvero, vediamo soltanto un edificio funzionalista che ricorda molto il Renzo Piano di Nemo, terminale di una rete logistica di cui noi siamo solo un’ingranaggio.

Che magari non c’entra niente, ma che le vuoi dire, alla deformazione professionale?

Giocare a Death Stranding in pandemia ha fatto strano per il clima psicologico nel quale l’incontrollata e incontrollabile diffusione delle notizie ci ha gettato. Ad una certa, non vedi più le differenze tra Covid e Cronopioggia. Siamo stati tutti Prepper in attesa di una consegna Amazon. Ci siamo aggirati impauriti nei supermercati alla ricerca di gel disinfettante come fosse Spray Riparatore per Casse. Le Creature Arenate invisibile e letali come i temutissimi Asintomatici, anche se poi han detto che pare non siano contagiosi, e dico “pare” per lasciar intendere ai posteri quanto abbiamo navigato a vista in questi mesi.

Giocare a Death Stranding durante il lockdown è un’esperienza completamente diversa, che nessuna VR potrà mai sostituire.

Arrivi al punto in cui lo stacco tra realtà e finzione si assottiglia talmente tanto che inizi a giocare con la meticolosità del lavoro. Orari fissi per turni fissi, catene di materiali da consegnare alle asfaltatrici per ricollegare l’America meglio e più velocemente, attraversare km in un attimo e in sicurezza ma soprattutto consegnare più pacchi, sempre più grandi, a persone che nella tua mente percepisci come reali, con bisogni reali, e che quindi hanno bisogno di quel pacco contenente medicinali, come tu hai bisogno del Blu-ray ordinato su Amazon il 15 febbraio prima della fine del mondo.

Del resto, la stessa percezione dell’altro in quarantena è stata trasfigurata e le videochiamate che abbiamo ricevuto e accettato con condiscendenza un numero spropositato di volte non sono molto diverse dalle “invasioni” chirali che subisce Sam e, in fin dei conti, i personaggi che sono “reali”, con i quali interagisce il nostro avatar, sono relativamente pochi, se li mettiamo a confronto con tutti i citofoni olografici con i quali abbiamo a che fare per la maggior parte del gioco.

Essere preso da Death Stranding è diverso che andare in preda alla frenesia della Caccia, diverso dal picco di adrenalina che procura il culmine di una partita a Call of Duty. Death Stranding ha costituito la solida rete infrastrutturale che ci fa andare avanti giorno per giorno nonostante la malediciamo e comunque comporta un perdersi, letteralmente, in un gioco, senza rendersi conto dello scorrere del tempo. Ore passate assorbito dal disporre correttamente i pacchetti sulla schiena, controllare le previsioni meteo, impostare le tappe del viaggio, scegliere equipaggiamento.

E noi così, fissi impalati difronte all’outfit casalingo del nostro interlocutore.

Con il proseguire del gioco, la rete si inizia a sfaldare, con l’incedere imperativo degli ultimi capitoli che, con tempismo inquietante, hanno seguito la scansione temporale della progressiva riapertura delle regioni.

Un Kojima metatestuale sfonda la quarta parete a calci e ti riporta nel mondo reale.

Il colpo definitivo: “Stiamo distanti oggi per abbracciarci più forte domani”, che nell’immaginario collettivo italiano ha definitivamente soppiantato il We Shall Fight on the Beaches di Churchill e un abbraccio che impedisce l’estinzione della razza umana.

Cosa resterà di tutte le fanfiction a tema Giuseppe Conte su Wattpad?

Oltre ad essere un gioco dalla struttura inaspettatamente ludica, sul finale concretizza la sua vocazione di acuta analisi del media videogioco. Spostare pacchi da un punto A ad un punto B, come una qualsiasi quest di un qualsiasi gioco a mondo aperto, solo asciugato di qualsiasi pretesto colorito. Anche muoversi attraverso una mappa per tappe più o meno obbligate, per proseguire attraversi capitoli in un viaggio verso occidente non completamente dissimile dal muoversi tra i livelli della mappa di Super Mario World per SNES, piantare la bandierina in un punto solo per scoprire che l’Entità Estintiva è nel prossimo centro logistico.

Del resto, come già per il macrogenere open world, cosa è un platform se non un camminare attraverso un livello per andare dall’altra parte?

E quindi Kojima riporta l’attenzione del giocatore sul gesto del camminare inteso come azione elementare per superare qualsiasi ostacolo e, in un momento storico nel quale è dibattito quanto ci si possa allontanare da casa con il cane, macinare chilometri virtuali è un’azione incredibilmente rilassante, soprattutto per la complessa non automazione del gesto.

E nemmeno mi è mai piaciuta tanto, la vita selvaggia all’aria aperta.

La narrazione dell’umanità al limite passa anche attraverso il trionfo dell’estetica funzionalista. Non c’è una delle strutture costruibili tramite il CCP che non sia plausibile nel campo delimitato del gioco, che contravvenga alla logica base della sopravvivenza, una predilezione per gli aspetti “macchinosi” sopra quelli meramente estetici. Death Stranding non si concede alcuna leziosità per la caratterizzazione di strutture temporanee che, come la vita nelle città, per sopravvivere, si rifugiano nel terreno e che per alcuni aspetti ricorda, per le sue forme pulite, il futuro passato algido e quasi bucolico descritto da Stålenhag in Tales from the Loop.

Similmente, il character design a base di cinghie, ganci e lacci è tutto fuorché elegante, assecondando un principio di praticità nel movimento e funzionalità per offrire il maggior numero di punti di appoggio per pacchi possibile. Non ci sono orpelli, non c’è niente di superfluo, tutto l’inventario è a vista.

Non credo sia così facile scongiurare la fine del mondo. O, meglio, mi piace credere che scongiurarla nei videogiochi sia parte di un contributo collettivo psicologico che ci allontani almeno per un altro giorno dalla fine dei giorni. Un rituale apotropaico digitalizzato.

Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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