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Bloodborne, un dio capriccioso

Bloodborne, un dio capriccioso

Quando giopep mi ha chiesto di scrivere un pezzo su Bloodborne, per evitare di cadere nelle solite banalità mi sono promesso che non avrei mai usato il termine “difficoltà” e i suoi derivati. Avrei voluto glissare con eleganza sull'argomento, ignorando questo gargantuesco pachiderma per concentrarmi su quanto di bello si cela alle sue spalle. Dopo una serie di bozze poco convincenti mi sono reso conto - ironia della sorte - che non si tratta di un’impresa banale. D’altro canto, il tasso di difficoltà elevato è una caratteristica centrale del design dei Souls. Hidetaka Miyazaki (il papà della serie) in un’intervista a Wired ha spiegato che “si tratta di un requisito imprescindibile per realizzare questa tipologia di giochi. Fin dai tempi di Demon’s Souls mi sono impegnato a sviluppare titoli che trasmettessero al giocatore l’immensa soddisfazione che si prova quando si riesce a superare una sfida improba.”

Le sfide improbe sono il motivo per cui la saga è riuscita a ritagliarsi un posto d’onore nell'immaginario nerd. Dark Souls è considerato il gioco difficile per eccellenza, il termine di paragone per ogni produzione che adotti una filosofia anche solo vagamente simile, pur appartenendo a generi ben distinti (Cuphead è il Dark Souls dei run and gun). Di più, Dark Souls è ormai diventato sinonimo di affrontare un’impresa complessa se non di “artefatto diabolico creato per condurre le umane genti alla dannazione”. Per esempio, citando il caro Ualone, il lunedì è il Dark Souls della settimana. Oppure, potremmo dire che parlare di Bloodborne senza fare una premessa inutilmente lunga sul suo livello di difficoltà è il Dark Souls dello scrivere di giochini.

Cuphead è anche un po' il Dark Souls dei giochi super zuccherosi.

Cuphead è anche un po' il Dark Souls dei giochi super zuccherosi.

Cosa ancora più interessante, la discussione sul tasso di sfida è il perno intorno a cui ruota l’intero dibattito sui Souls. O ti piacciono, oppure non sei abbastanza bravo. Git gud. Una semplificazione perniciosa che strozza sul nascere ogni possibilità di dibattito, creando un’atmosfera tossica che rischia di indispettire i più. Vi confesso che dopo un’esperienza poco felice con il primo Dark Souls capitata in un momento ancora meno felice della mia vita, ho rimandato per anni l’appuntamento con Bloodborne proprio perché scoraggiato da simili commenti. Per anni mi sono privato della possibilità di godere di quello che sarebbe diventato il mio gioco preferito di tutti i tempi, il Castlevania in tre dimensioni che ho sempre sognato ma non pensavo avrebbe mai visto la luce. Quando mi sono deciso a fare il primo passo, il colpo di fulmine è stato immediato. Nonostante il mio scetticismo, confrontarsi con le “tremendous odds” tanto care a Miyazaki non è poi così spaventoso, anzi, ha un fascino irresistibile.

Bloodborne è come il Dio capriccioso dell’Antico Testamento, lento all’ira e sempre pronto al perdono. Un Dio severo ma equo, le cui punizioni sono ben commisurate al peccato commesso. Non si scaglia contro i suoi fedeli perché mosso da rabbia, ma dalla delusione propria del padre affettuoso. Desidera solo che i suoi figli siano sempre impeccabili. Potrei proporvi tanti altri paragoni altrettanto bislacchi. Potrei dirvi che Bloodborne è come uno specchio che si limita a riflettere le nostre debolezze e punti di forza, o un maestro di arti marziali che ci fa lo sgambetto se osiamo improvvisare un attacco scomposto. Io l’ho vissuto come un esercizio zen volto al raggiungimento della perfezione (e che si sublima nella ricerca della perfezione fine a se stessa), una danza fatta di rapide schivate, fendenti rabbiosi e contrattacchi calcolati al millisecondo. È stata una lezione di umiltà e rispetto verso nemici così nobili nella loro furia primordiale, un’esperienza mistica dove il confine fra il mondo onirico e quello materiale è così labile da farci dubitare della percezione della realtà.

In altre parole, Bloodborne è il maestro Miyagi.

In altre parole, Bloodborne è il maestro Miyagi.

Concedetemi di indulgere un’ultima volta nelle mie analogie sui generis. Una volta superato l’impatto iniziale, in Bloodborne si possono ammirare persino i tratti del Dio misericordioso del Nuovo Testamento, quel padre pronto a rimettere ogni debito. Volendo richiamare una figura ancora più altisonante, possiamo vederlo come il corrispettivo videoludico del nonno di Heidi, che dietro il suo carattere burbero nasconde un cuore d’oro. Non mi riferisco (solo) al fatto che nel capolavoro di From Software la morte rappresenti un’occasione di riscatto, più che la dannazione eterna. In realtà, mi riferisco a un aspetto spesso sottovalutato: come il gioco sottolinea a più riprese, in Bloodborne non si è mai soli.

Potrà sembrare un paradosso, ma ritengo che il sistema di invocazioni che consente di affrontare l’avventura in co-op sia l’aspetto meno interessante dell’esperienza comunitaria proposta da Bloodborne. Siamo onesti, gli scontri con i boss non sono bilanciati a dovere per il multigiocatore, sfidarli in compagnia di un altro cacciatore è un compito così triviale da risultare noioso. Piuttosto, ho adorato la possibilità di lasciare ovunque, fra i cunicoli di Yarnham e dintorni, dei messaggi rivolti “agli avventurieri provenienti dagli altri mondi”, così come il poter osservare i fantasmi che ne riproducono i loro ultimi istanti di vita. In questo modo, chi lo desidera può avvalersi di un'eccezionale guida interattiva, tanto precisa nel fornire indicazioni contestuali quanto sufficientemente sibillina (del resto i messaggi possono essere vergati ricorrendo a una ristretta cerchia di lemmi predeterminati) da non guastare il piacere della scoperta. 

Un cacciatore non è mai solo.

Un cacciatore non è mai solo.

Il piacere della scoperta è l’elemento su cui desidero fare luce fin dall'incipit di questo articolo. Come già sottolineato nonostante il design di Bloodborne si basi sul proporre sfide improbe e riuscire a superarle sia fonte di soddisfazioni immense, non penso siano la componente più affascinante del gioco. Sia chiaro, ho amato alla follia il sistema di combattimento (effettuare le parry con le armi da fuoco penso sia la singola meccanica più esaltante mai vista in un videogioco) e ricorderò a lungo il primo incontro con il Chierico Belva, l’allucinato combattimento con Micolash e l’estenuante sfida con il figlio di Kos, conclusa in uno stato fra l’esaltazione e la nevrosi più totale. Eppure, non ho portato a termine queste sfide per la soddisfazione fine a se stessa di superarle. Se ho stretto i denti fino ai titoli di coda è perché non avrei trovato pace finché non fossi riuscito a esplorare ogni centimetro quadrato del gioco, a svelare ogni segreto che cela agli occhi dei curiosi. 

Il fascino che permea le strade di Yarnham esercita un potere magnetico. È impossibile non rimanere ammaliati da questo mondo dove il gotico incontra il vittoriano, un unicum nella storia recente del medium. È altrettanto difficile non farsi conquistare dalle vicende di un’umanità prossima al collasso per essersi macchiata del peccato di hybris, che lotta per la sopravvivenza sullo sfondo di un conflitto campale fra i Grandi Esseri. Una mitologia che per quanto non originale (è palese il debito di riconoscenza verso i racconti di Poe e Lovecraft) è messa in scena con una cura per i dettagli da applausi. E se pure non si volessero dedicare energie mentali a scandagliare i misteri che si celano dietro la maledizione che ha colpito Yarnham, bisognerebbe avere un bidone dell'immondizia al posto del cuore per rimanere insensibili alle suggestioni estetiche offerte da Bloodborne. Cattedrali marmoree le cui guglie sfiorano un cielo rosso sangue si fondono senza soluzioni di continuità con selve oscure, villaggi abbandonati, cave sotterranee, lande desolate e le oniriche terre dell’incubo. Il risultato finale è un universo variegato ma miracolosamente coerente, retto da un level design che riesce a regalare momenti di intensa goduria ogni volta che si scopre una scorciatoia che collega punti apparentemente agli antipodi della mappa. Poter assistere a tanta bellezza è una soddisfazione così immensa che giustifica ogni sforzo necessario per godersela. Del resto, come recita il saggio, “chi nun tene coraggio nun se cocca ch'e femmene belle.”

Questo articolo fa parte della Cover Story “Ricordati che devi morire”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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