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L’apocalisse è il mio piano B

L’apocalisse è il mio piano B

Allora, all’inizio questo sarebbe dovuto essere un pezzo dedicato a Snowpiercer, la distopia ferroviaria che nel 2013 il regista Bong Joon-ho ha tirato fuori dal fumetto Le Transperceneige, di Jacques Lob e Jean-Marc Rochette. Giuro che ero già lì tutto gasato e pronto a lanciarmi in arditi parallelismi con Parasite, tra ascensori sociali guasti, spazi orizzontali contro spazi verticali, rocce metaforiche e questo e quell’altro. Solo che poi mi sono ricordato che, oltre ad essere un fantastico film di Natale, Snowpiercer è a tanto così da una delle mie fantasticherie dell’infanzia.

Ai tempi delle elementari, quando sentivo la necessità di staccare dalle lezioni della maestra o semplicemente di straniarmi, prendevo a immaginare questo mondo post apocalittico in stile Mad Max, che praticavo per i fatti miei a bordo di una specie di mezzo blindato, virtualmente indistruttibile nonché dotato di tutti i confort. Di tanto in tanto, incontravo gente, perlopiù improbabili versioni distopiche dei miei compagni di classe o dei membri di quella sparuta sfera sociale che passa il convento quando hai tra i sei e i dieci anni, ma per la maggior parte del tempo, mi limitavo a contemplare la devastazione che correva fuori dal finestrino.

Zero sbatti.

Trovavo quella particolare fantasia incredibilmente accogliente. Era accogliente la faccenda della blindocosa, che mi faceva sentire protetto, ma soprattutto l’idea che il mondo se ne fosse andato sostanzialmente in vacca, assolvendomi da legami o responsabilità di sorta (lo so, parliamo sempre delle elementari), lasciandomi come unica preoccupazione il viaggiare fine a sé stesso.

Una volta alle medie, mi sentivo ormai artisticamente maturo per espandere quella grossolana mitologia con comprimari, avversari e potenziamenti vari, perlopiù grattati dai manga che leggevo e rigorosamente senza un briciolo di originalità. Ricordo pure che, da un certo punto in avanti, presi a disegnare delle vere e proprie storie, scarabocchiando i libri testo, definendo l’aspetto del mio alter ego fino a renderlo una specie di ninja dalla forza sovrumana e dal fisico scolpito, capace di non invecchiare mai e persino di aumentare la propria statura (queste ultime due cose le lascio qui per la gioia degli psicologi in ascolto).

A rimanere invariato negli anni era lo sfondo post nucleare che, anzi, mi pareva sempre più rilassante mano a mano che aumentava il carico di studio e di responsabilità della vita.

A costo di sembrare un cattivo da cartone animato, devo ammettere che pure oggi, ogni volta che incrocio un racconto dai lineamenti apocalittici, non posso evitare di trovarlo consolatorio. Come se il concetto stesso di distruzione finisca per evocare, per antitesi, un qualche tipo di rinnovamento, se non un ripristino delle possibilità di partenza.

Insomma, l’apocalisse è il mio piano B.

Il piano C è la Legione straniera, ça va sans dire.

Era il mio piano B alle elementari e ha continuato ad essere il mio piano B anche dopo. Persino durante la recente epidemia, seppellita sotto tutta l’ansia e la paura, una parte di me sperava che il mondo, dopo la nottataccia e i cocci, non sarebbe più tornato lo stesso di prima. Che sarebbe andato avanti cavandosi finalmente dalle balle tutto quel riciccio socio-culturale iniziato dal secondo dopoguerra in avanti.

Naturalmente, è possibile che questo genere di fantasticherie dipenda dal fatto che ho trascorso più di vent’anni a bagno nel millennio scorso, quando un sacco di gente, anche spintonata dai media, tendeva a vedere nel capodanno del Duemila una sorta di spartiacque. E pur vero che il mito dell’apocalisse affianca l’umanità dalla notte dei tempi, e ogni religione che si rispetti ha la sua storiella della buonanotte sulla fine del mondo. Però, insomma, senza stare a fare di conto, ho la sensazione che un certo modo di inquadrare e raccontare il futuro sia figlio della seconda metà del Novecento.

Mi riferisco a quelle particolari narrazioni in cui le evenienze di ricostruzione finiscono per negare o ostacolare il ritorno allo status quo che precedeva la crisi. Quasi sempre, c’è in ballo un conflitto tra i vecchi, incapaci di emanciparsi dal passato e reinventarsi, e i giovani (se non addirittura i bambini) che, invece, spingono per andare avanti ripartendo da zero, a vari livelli di utopie di decrescita. Tipo nei racconti di Miller, Ōtomo o Anno, in cui la ruvidità della fine nasconde sempre un seme di speranza per il nuovo inizio (almeno, mi pare).

Gendo vota decisamente per tornare indietro.

Oltre ai temi di rinascita e seconda chance, un’altra cosa che mi affascinava - e mi affascina - di apocalissi e mondi a seguire è l’avventura. Ricordo che all’università c’era questo professore di pedagogia che, durante una lezione, opzionò i viaggi e le relazioni amorose come uniche occasioni avventurose alla portata di noialtri bambocci occidentali. Si trattava evidentemente di un’iperbole, ma mi colpì molto, perché faceva pace con la fantasia di futuro che mi ero fatto durante l’infanzia. Non un futuro da impiegato, ché Fantozzi non lasciava scampo (oggi, di contro, ad avercene), ma nemmeno da sportivo, attore o financo da genitore.

Come ho detto, la mia idea di futuro ideale era, e per certi versi rimane, quella di vagabondare per un mondo post nucleare in cerca di avventure. Naturalmente a bordo di un veicolo corazzato con tutti i confort, ché sotto sotto resto una teresa, e magari senza andare troppo in là con gli anni, altrimenti l’unico posto libero diventa quello del vecchietto che viene pelato dagli scagnozzi di Raoul.

Tipo.

Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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