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Racconti dall'ospizio #104: Boktai - Il sole è sulle mie spalle

Racconti dall'ospizio #104: Boktai - Il sole è sulle mie spalle

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

A me Metal Gear Solid è sempre stato un po’ in culo. Per diverse ragioni. Un po’ perché la poetica di Kojima, a volte, è condita da una marea di cazzate. O forse per la natura ibrida, né davvero stealth né davvero action, della serie.

No, non è vero. In realtà Metal Gear Solid mi sta un po’ sul cazzo perché io, alle medie, ero l’unico ad avere un Nintendo 64 e nessuno voleva parlare con me di Ocarina Of Time, perché tutti, maschietti, femminucce e persino bidelli o bidelle erano intenti nelle avventure di Solid Snake.

Mentre io galoppavo con Epona nelle verdi lande di Hyrule, gli altri erano nel grigiore di Shadow Moses a nascondersi dentro scatole ridicole.

Poi venne il Game Boy Advance, la console migliore di sempre. Non “portatile”, eh, proprio in senso lato. E con lei una marea di giochi che porto nel cuore, come Advance Wars, Metroid Fusion, Wario Land 4 e Mario & Luigi: Superstar Saga. Ma c’è un gioco che ha lasciato la sua impronta anche sulla mia pelle. Letteralmente.

Era il 2003 e in un caldo giugno, dopo aver letto un’entusiasta recensione su NRU - ad opera probabilmente di qualche losco figuro qui di Outcast - ho investito i soldi regalatemi da nonna per il mio compleanno nell’acquisto di Boktai: The Sun Is In Your Hand. Il primo gioco di Kojima tutto mio, non prestato o provato da qualche amico. Ed era un gioco che fondeva azione, enigmi e stealth, proprio come Metal Gear Solid. Ma con i pixel, quindi più bello. E una stramba cartuccia dotata di un sensore fotometrico. Una sorta di mini-pannello solare.

Ecco il cartuccione con sensore amato da grandi e piccini

Perché Kojima vuole essere sempre un po’ “meta”. E quindi Boktai era anche un po’ la voglia di portare la console portatile davvero fuori dalle mura domestiche, tra i prati rigogliosi e il sole dietro te, poi tra le tue mani, che stringono il Game Boy Advance e la sua cartuccia speciale. Che, a sua volta, raccoglie la luce del sole e la usa per alimentare la pistola di Django, l’eroe del gioco, per far fuori tutti i cattivissimi mostri presenti nelle mappe isometriche.

O anche solo stordirli: come da tradizione Kojima, infatti, l’approccio stealth è in alcuni casi decisamente preferibile, limitando le sparatorie solo a quando davvero serve o negli scontri contro i boss, nei quali dar fondo anche alle riserve di energia solare che era possibile accumulare nei giorni più luminosi, per poi utilizzarle nelle giornate più uggiose cantate da Battisti.

Con Boktai fu vero amore. Forse per il level design. Forse per l’idea tutta stramba che può venire solo a un giapponese un po’ sociopatico (sì, Kojima lo è, l’ho deciso io). O forse per via di tutte le meccaniche un po’ da RPG, come la personalizzazione dell’arma e dell’equipaggiamento. Fatto sta che presi a giocare Boktai quasi ininterrottamente, provando anche ad utilizzare lampadine come fonte di luce alternativa. Con risultati molto deludenti.

Dovevo usare il sole. Ma il giugno di Bacoli, paesino a-là Animal Crossing in cui tutto gira intorno a un laghetto e al mare, non è tiepido come la campagna giapponese immaginata da Kojima. Sa essere caldo. Afoso. Sa picchiare davvero forte. Ecco perché io a Boktai cercavo, per quanto possibile, di giocare dietro alla finestra della mia stanzetta, con l’aria condizionata che mi sospirava contro, in un mix “caldo-freddo” che - ormai trentenne - mi manderebbe all’ospedale per direttissima. Ma riuscivo a giocare alla stragrande. E questo contava.

Prima di abbattere i boss, era necessario portare le loro bare in un punto specifico.

Tranne quella volta che avevo una boss fight stronza. Particolarmente stronza. E stranamente, il sole che passava dalla finestra non sembrava sufficiente. Dovevo correre in giardino, ricevere tutta la potenza di cui avevo bisogno. Cappellino e borraccia e via per le scale, pronto alla sfida. Trenta minuti indimenticabili di solleone di quasi luglio, combattimento tesissimo e spalle roventi. Il messaggio in game che mi avvisava di fare attenzione, che forse stavo prendendo troppo sole.

Taci, stronzo. Sei tu che lo hai voluto. Prenditi le tue responsabilità, Kojima infame. Alzai la visiera del cappellino quel tanto che serve a coprire, per un paio di minuti, il sensore della cartuccia e poi di nuovo a spararmi addosso tutto il sole di cui ho bisogno. Vittoria. Sudore. Eritema.

Di quello bello forte, che ti costringe a non andare a mare se non dopo le 19:00 di sera. Poco male, avevo la spiaggia a dieci minuti di camminata. E così avevo pure la scusa per dedicare tutta la mia mattina a Boktai.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Metal Gear e Hideo Kojima", che trovate riepilogata a questo indirizzo.

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