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Prey, un gioco fuori dal tempo

Prey, un gioco fuori dal tempo

Si dice che Roland Barthes, il giorno in cui fu investito da un camioncino, avesse appena finito di lavorare al suo ultimo scritto. Si tratta di Non si riesce mai a parlare di ciò che si ama, un pamphlet la cui pagina conclusiva fu ritrovata ancora inserita nella macchina da scrivere del semiologo francese. Probabilmente, nelle settimane precedenti il convegno su Stendhal per cui lo aveva realizzato, avrebbe apportato qualche ulteriore modifica al testo finale. Non ne ebbe il tempo, sarebbe morto in ospedale esattamente un mese dopo il tragico incidente.

Devo confessarvi che non ho avuto ancora il piacere di leggere il saggio in questione, ne ho scoperto l’esistenza soltanto perché, incuriosito dalla copertina, il buon Nabacchio lo ha acquistato assieme a quel Il tempo è un bastardo che gli ho consigliato con tanto calore (leggetelo anche voi, è un romanzo fenomenale). Un consiglio, ironia della sorte, fatto di frasi sconnesse, tenute insieme da aggettivi altisonanti e qualche avverbio di troppo. Il titolo dell’opuscolo di Barthes mi ha colpito nel profondo: non si riesce mai a parlare di ciò che si ama, almeno non come vorremmo. Quando si compie un atto così intimo come il descrivere un’opera che ci ha emozionato, si diventa tremendamente vulnerabili. Piacerà al mio interlocutore quanto è piaciuta a me? Riuscirò a renderle giustizia con le mie parole? Merita davvero le lodi che sto tessendo? Difficile non farsi mordere dal tarlo del dubbio.

Per ovviare a queste storture, prima di scrivere un articolo dedicato a un videogioco che ho adorato, provo a immaginare se, a cinque anni dalla sua pubblicazione, sarà considerato un punto di riferimento per tutte le produzioni affini. Cosa ancora più importante, mi chiedo se continuerò a conservarne un ricordo piacevole, che non sbiadisca con il passare del tempo. Nel caso di Prey, non ho avuto alcun dubbio. Il capolavoro di Arkane Studios sarà il termine di paragone con cui dovranno confrontarsi tutti i futuri immersive sim (e non solo). Inoltre, a meno che non venga colto prematuramente da demenza, dubito che dimenticherò un titolo che non esiterei a inserire in una top ten dei miei giochi preferiti di sempre. Prey non rappresenta soltanto un passo avanti rispetto quanto Colantonio&Co hanno fatto con Dishonored, è la sintesi perfetta di quanto di bello abbiamo visto in cinquanta e passa anni di storia del medium. Un lavoro che lascia a bocca aperta, capace di fondere aspetti che mai avrei pensato fossero conciliabili.

Qualche giorno fa, mi sono imbattuto in una discussione su ResetEra (forum fondato da alcuni transfughi di NeoGAF), dove Prey viene descritto come “un gioco fuori dal tempo”. Citando liberamente le parole dell’esimio MilesQ, “ti devi occupare di gestire l’inventario e le varie risorse a tua disposizione, c’è un sistema ad albero per acquisire nuove abilità e persino elementi da GdR, tutte caratteristiche assenti negli FPS moderni. L’energia vitale del personaggio non si rigenera in automatico e le risorse di cui sopra sono così scarse che vivo nel terrore di venire ucciso prima di riuscire a raggiungere una zona sicura. Il gioco non ti tiene per mano nemmeno per mezzo secondo, dopo un breve tutorial, vieni abbandonato a te stesso. [...] Sotto molti punti di vista, mi ricorda System Shock, e forse questa è la cosa più folle di tutte. Un titolo à la System Shock, realizzato nel 2017 con valori produttivi tripla A? Assurdo.”

Il nostro amico d’oltreoceano ha centrato perfettamente il punto. Il Prey di Arkane è un sentito omaggio a un certo modo di fare videogiochi che i più potrebbero considerare obsoleto. Durante le fasi iniziali, possiamo notare numerose strizzatine d’occhio alle sue principali fonti d’ispirazione. Il personaggio di cui guidiamo i movimenti è uno scienziato che, in seguito a un esperimento uscito fuori dal suo controllo, si trova a fronteggiare degli aracnidi alieni armato unicamente di una chiave inglese. Sulla falsariga del Gordon Freeman di Half-Life 2, Morgan Yu è un avatar muto: fino al momento in cui scorreranno i titoli di coda, non pronuncerà una singola parola. Inoltre, il nostro protagonista, in preda a un’amnesia che ne ottenebra i ricordi, decide (o meglio, accetta) di affidarsi alle indicazioni di una voce misteriosa che sembra conoscerlo alla perfezione, come l’Atlas di BioShock. Dopo aver superato le prime minacce, potremo rifugiarci nel suo ufficio digitando il codice di sicurezza “0451”, una sequenza di numeri familiare ai fan di Deus Ex. Infine, la prima missione vera e propria ci vedrà impegnati a ripristinare la tecnologia Looking Glass (nome di una certa software house che dovreste già conoscere), ovvero l’infrastruttura che regge la rete intranet della stazione spaziale.

Eppure, Prey è indubbiamente figlio dei nostri tempi e non mi riferisco ai già citati valori produttivi stellari o all'opera di semplificazione necessaria per rendere più digeribile (senza depauperare)  la “formula System Shock” ai più giovani. Soltanto in un’epoca perversa come la nostra, un publisher potrebbe aver pensato di proporlo come un reboot dell’omonimo gioco del 2006, un mediocre sparacchino che fu accolto dall’indifferenza generale (con buona pace dei suoi pochi sostenitori).

A tal proposito, Prey presenta un’altra contraddizione interessante. Pur non avendo alcun punto in comune con l’FPS di Human Head Studios, tiene perfettamente fede al nome che porta. D’altro canto, ho capito di amarlo con tutto il cuore quando, superato il prologo, ci si ritrova nella lobby principale di Talos I. Siamo soli, non riusciamo a scacciare il sospetto di essere gli unici superstiti di una tragedia della quale conserviamo solo ricordi confusi, dei frammenti che ci lacerano il cervello nei momenti meno opportuni. Sappiamo di essere circondati da creature ostili, anche se non riusciamo a vederle fino all'istante stesso in cui decidono di attaccarci. Brancolano nel buio, si mimetizzano con l’ambiente circostante, il loro respiro affannoso ci tormenta. Nel momento in cui abbiamo avuto la malsana idea di mettere piede in quello spiazzo desolato, siamo diventati una preda.

Anche in una situazione così disperata, non si può resistere al fascino sinuoso della stazione orbitante dove ci siamo risvegliati: dalle sue vetrate si può ammirare una vista della Via Lattea che lascia senza fiato. In un tripudio di tecnologie all'avanguardia e mobili in stile art decò, la base ospitava centinaia fra le menti più brillanti del pianeta Terra, decise a spingere l’umanità verso confini inesplorati. Per la cronaca, siamo nel 2030, in un’ucronia in cui la Guerra Fredda non si è mai verificata, consentendo a Stati Uniti e URSS di concentrare le proprie energie sul programma spaziale. Talos I è il frutto di questa singolare alleanza, una struttura gargantuesca destinata alla sperimentazione sui modificatori neurali.

Talos I è la vera protagonista di Prey, esattamente come Dunwall in Dishonored. I livelli da cui è composta riprendono il design eccelso delle ambientazioni della capitale dell’Impero delle Isole, la loro capacità di sfruttare la dimensione verticale, l’intreccio di percorsi alternativi che conducono al medesimo obiettivo. I ragazzi di Arkane hanno compiuto un ulteriore passo avanti, amalgamandoli all'interno di una mappa da metroidvania, collegandoli in maniera così elegante da formare un piccolo open world. L’elemento più interessante è che fin da subito si possono esplorare gli anfratti di Talos I senza dover necessariamente seguire l’ordine suggerito dalla quest principale. Che ci venga voglia di dare un’occhiata a un’ala della stazione che non abbiamo ancora visitato o di dedicarci a una secondaria che ha catturato la nostra attenzione, non ci verrà imposto alcun limite (a patto di aver sbloccato le abilità necessarie per soddisfare la nostra curiosità).

Forse è proprio questo l’aspetto più notevole di Prey, il saper conciliare la sua natura rigorosa con una libertà d’azione senza precedenti. Come avrete immaginato leggendo i numerosi parallelismi con System Shock, Prey non è affatto un gioco semplice. Anzi, Prey non si limita a proporre un tasso di sfida elevato (che volendo è possibile ridurre selezionando un livello di difficoltà più vicino alle proprie capacità), ma richiede al giocatore di interfacciarsi con una serie di sistemi piuttosto complessi. In altre parole, si tratta di un gioco che richiede massima attenzione, un’esperienza cui concedersi anima e corpo per trarne soddisfazione. Come già accennato, le risorse necessarie per craftare gli strumenti di cui abbiamo bisogno (in primis munizioni e medikit) sono cronicamente scarse. Durante la prima metà della nostra avventura, ci ritroviamo più volte raggomitolati in un cantuccio, sconsolati, stringendo fra le mani la manciata di proiettili con cui dovremmo superare intere orde di Spettri. Similmente, sono altrettanto limitati gli upgrade per le armi e i punti abilità spendibili, costringendoci a scegliere con precisione le caratteristiche del nostro personaggio che vogliamo sfruttare maggiormente (hacking o forza bruta? Ricorrere o meno alle abilità psioniche degli alieni?)

Il rovescio della medaglia è che, sulla carta, non c’è alcuna risposta sbagliata ai molteplici dubbi che ci porremo nel corso della nostra personalissima Odissea. Nella stragrande maggioranza delle situazioni, ad esempio, è possibile sia sgattaiolare alle spalle di un nugolo di nemici che affrontarli di petto: se falliremo è perchè avremo applicato male la nostra strategia. Il simbolo delle infinite possibilità offerte da Prey è il Gloo Cannon, un gingillo iconico quanto la Gravity Gun di Half Life 2. Si tratta di un cannone capace di sparare delle sfere di lattice che si solidificano al contatto con una qualunque superficie. Non solo un’arma per immobilizzare i nemici, ma uno strumento per creare percorsi e strade alternative per raggiungere ogni singolo luogo di Talos I. O, più semplicemente, per scrivere Ringcast Merda sul pavimento della lobby di Talos I.

Al netto di qualche scocciatura di poco conto come alcuni problemi di mixaggio audio e un backtracking forse eccessivo nelle fasi finali, Prey è un’opera praticamente perfetta. Un capolavoro di level design, un eccelso racconto sci-fi, un immersive sim con meccaniche tanto profonde quanto piacevoli da sfruttare, un viaggio all’interno della psiche umana e, al contempo, di uno fra i mondi più affascinanti nella storia dei videogiochi: Prey è tutto questo e forse qualcosina di più.

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Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.

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