Outcazzari

Outcast GOTY 2017

Outcast GOTY 2017

Amici! Ce l’abbiamo fatta anche quest’anno! Siamo sopravvissuti! Oddio, manca ancora qualche giorno, ma insomma, lasciamo volare l’ottimismo. E intanto che lo lasciamo volare, concludiamo la nostra rassegna di OTY accazzodecane: dopo le nostre serie TV preferite e i nostri film preferiti del 2017, si passa ai videogiochi, sempre messi in fila un po’ come capita.

Buona lettura e buon anno!

Marco Mottura

In un'annata a dir poco massiccia, di quelle che verranno con tutta probabilità iscritte nelle cronache - fosse solo per il fatto di aver visto entro meno di dodici mesi un nuovo capitolo della serie principale di Zelda e un nuovo capitolo della serie principale di Mario... e che Zelda e che Mario! - per me a trionfare è, non senza una certa dose d'ironia, un'esclusiva Microsoft, che in realtà ha pochissimo del carattere che tradizionalmente si potrebbe associare all'universo Xbox: Cuphead.

A dispetto di release ben più strombazzate e roboanti, per me la scelta di Cuphead è in realtà semplicissima: per prima cosa c'è un po' di implicazione affettiva, con tutta la faccenda del gioco indie che ti fa innamorare dopo neanche mezza schermata (ricordo bene la mia reazione dalla platea del Galen Center all'E3 2013, la ricordo come fosse ieri) e che poi passa attraverso un iter complicato, faticoso e un po' fuori controllo, di quelli che ti fanno sconfinare in qualcosa a metà strada fra la chimera e la macchietta in perfetto stile The Last Guardian.

Poi, esattamente come per la travagliata odissea del topocane del Fumitone nostro, c'è la qualità cristallina del gioco. Perché Cuphead non è solo strabiliante da guardare, ma va: Cuphead è anche e soprattutto una meraviglia da giocare, con un gameplay duro come il ferro che ti entra fin sotto ai polpastrelli e un game design stellare, da autentici primi della classe (possibilmente cresciuti a pane, Alien Soldier e gomitate nel culo). E alla fine, in quella sinistra dimensione fatta di migliaia di celle maniacalmente animate a mano, fra oscuri rimandi ad un'epoca che non esiste più ed esplicite allusioni a cavallo fra il grottesco e l'esoterico, non potevo non consegnare gioiosamente l'anima al Diavolo. Evviva Cuphead, evviva Lucifero, lunga vita a Studio MDHR.

Natale Ciappina

È in momenti come questo che capisco che sto invecchiando; dunque, scegliere il mio Game Of The Year: mi guardo alle spalle, e vedo il vuoto. Sì, ho recuperato parecchi titoli dal backlog, e ho anche macinato un centinaio di ore su Destiny 2, ma a conti fatti, di giochi che mi abbiano fatto esaltare, pubblicati e giocati durante questo 2017, non ce ne stanno poi tantissimi. Anzi, la rosa di scelte è estremamente ridotta. Eppure, per quel poco che ho giocato, mi sono divertito parecchio, eh. A pensarci bene, direi Flinthook. Sì, dai. L’ho pagato pochissimo (Calcaterra-way), mi ha impegnato per tanto tempo con un livello di difficoltà stimolante nella giusta misura, ne ho adorato la colonna sonora e lo stile grafico. Poi, cos’altro? È piaciuto persino a Pocoto. Che non è mica poco.

Stefano Talarico

Prendersi gli incubi con un’ora di Prey. Fare l’amore spippolando i joystick perfetti di Nex Machina. Godersi la prima volta di Bayonetta su PC. Partire per una space opera gigante e infinita come Destiny 2. Scoprire di amare il diverso (dai propri gusti) con Mario + Rabbids: Kingdom Battle. Gioire della vita al suo massimo, e quindi REZ Infinite su PC. Tuffarsi in un passato che pensavi perduto con Thimbleweed Park, commuovendoti anche un po’ per quello che ha significato. Giocare appieno a Mario Kart 8 Deluxe, con gli amici, da tutte le parti, sempre. Farsi travolgere dalla grandezza e dal piacere della scoperta con The Legend of Zelda: Breath of the Wild. E pure tutto ciò a cui non ho ancora giocato, e che è sicuramente un cioccolatino da scartare. Il 2017 videoludico è stato una bomba, probabilmente uno dei migliori di sempre per rapporto qualità/quantità. Per questo trovo ancora più bello che, a un certo punto, sia arrivato il baffo da Kyoto a ricordarci che sì, gli eSport, le “esperienze”, ma i videogiochi portano da sempre un cappello rosso con una M sopra. Super Mario Odyssey rappresenta quello che Breath of the Wild ha fatto con Zelda e i giochi di ruolo, e oltre: un platform che trascende i generi, che si fa beffe dei guardinghi (New Donk City!) e che, dopo aver raccolto da chi è cresciuto insieme a lui, si mette a insegnare design alle prossime generazioni.

Vi ricordate quella storiaccia delle cartucce di Switch, fatte apposta di una plastica amara affinché i bambini non se le mangino? Ecco, io l’ho preso in digitale, ma secondo me Odyssey ha buona anche la cartuccia.

Vincenzo Aversa

The Legend of Zelda: Breath of The Wild perché ha settato l’asticella degli open world verso orizzonti difficili da ignorare. Mentre tutti si accapigliano nell’affannoso tentativo di riempire i propri mondi di cose da fare e cose stupide da sentire, Nintendo ha ridato importanza e dignità al viaggio. Breath of The Wild consegna al giocatore solo gli strumenti per costruirsi un’infinità di ricordi personali e unici, non costruisce per lui miliardi di avventure da dimenticare in fretta. Il vuoto tra i contorni è il segreto del suo successo, non i colori nel suo astuccio.

What Remains of Edith Finch probabilmente non passerà alla storia. Io stesso non mi sono degnato di comprarlo e mai l’avrei giocato se un amico non l’avesse scelto come regalo. Ma è qui a giocarsela con Zelda perché ha usato il linguaggio dei videogiochi come nessuno prima d’ora, con eleganza pure, ed è stato capace di raccontare una splendida storia senza affogarla in noiose camminate o tempi morti e sepolti. È un gioco che ti sorprende, che ti intrattiene e poi diverte e poi commuove ma senza costringerti a sprecare vita, con chirurgica decisione fino ai titoli di coda. Non lo dimenticherò mai, qualunque cosa volesse dirmi.

Davide Moretto

Scegliere il gioco migliore dell’anno, per me, è in realtà contemporaneamente molto semplice ma anche molto diffiicile. Semplice perché quest’anno probabilmente è uscito il gioco migliore dell’intera storia videoludica, difficile perché sempre negli ultimi dodici mesi è arrivato il nuovo capitolo di una serie motoristica che mi accompagna, tra alti e bassi, ormai da vent’anni. Ma no, so di uniformarmi alla massa, ma non posso che decretare come mio GOTY del 2017 The Legend Of Zelda: Breath of the Wild. Proprio in questi giorni è stato reso disponibile il secondo DLC, La ballata dei campioni, che, come se ce ne fosse bisogno, mi ha fatto riprendere in mano il pad del Wii U (sì, l’ho preso sul vecchio sistema e non me ne sono assolutamente pentito) e andare di nuovo a zonzo per le bellissime, infinite, stupefacenti lande di Hyrule. Personalmente, quando mi metto a parlare di questo capitolo della saga, mi ritrovo a raccontare di aver scovato, dopo decine e decine di ore di gioco, nuovi posti, panorami mozzafiato, animali mai visti... insomma, Breath of The Wild è un’esperienza, più che un videogioco. Io ero uno di quelli che ridevano quando Nintendo ha parlato di open wolrd. Pensavo che mi sarei trovato davanti ad una pallida copia di Ocarina Of Time e invece sono simasto stupito, sconvolto, addirittura. In mille piccoli dettagli, questo gioco è fuori parametro, un titolo che ha creato un solco storico col passato, ed ora qualsiasi Elder Scrolls futuro non potrà che confrontarsi con questo capolavoro assoluto.

Andrea Peduzzi

Questo è facile: il mio gioco dell’anno 2017 - uno degli anni migliori in assoluto per i videogiochi, tra l’altro - è stato chiaramente The Legend of Zelda: Breath of the Wild, che mi è finito tra le mani proprio quando sugli Zelda “grossi” avevo quasi messo giù il pensiero. E invece, l’ultimo capitolo della celeberrima saga è diventato un buco nero che ha risucchiato quasi tutte le mie ore libere (e pure molte di quelle non libere) della scorsa primavera, scombinandomi completamente i ritmi: era dai tempi dell’università che non mi capitava di giocare febbrilmente fino alle tre o alle quattro del mattino per riattaccare già alle prime luci dell’alba. E il bello è che in questa pazzia non ero mai da solo, ma ogni volta che risvegliavo la console c’era sempre qualcuno online (Babich H24: ho addirittura pensato che facesse staffetta con qualcun altro, o che si fosse fatto clonare).

Comunque, The Legend of Zelda: Breath of The Wild è stato la migliore killer application possibile per Switch, oltre che una delle cose migliori uscite negli negli ultimi anni. Un gioco che si è scrollato di dosso alcuni aspetti della serie che in prospettiva si erano fatti un po’ troppo rigidi e ingombranti per abbracciare la piena libertà, introducendo nel gameplay tutta una serie di variabili che non lasciano stare il giocatore nemmeno per un secondo.

Poi, per carità, non è che le meccaniche del gioco rappresentino delle novità in senso assoluto: c’è dentro un po’ di questo, un po’ di quello e un po’ di quell’altro ancora. A fare la differenza qui non sono tanto gli ingredienti, ma il loro dosaggio perfetto e la loro qualità assoluta. Spesso si dice che un gioco è superiore alla somma delle sue parti quando qualcuna delle parti in questione ha qualche problema. Beh, qui tutte le parti sono assolutamente perfette, e assieme raddoppiano, triplicano DECUPLICANO il loro valore.

Che altro dovrei scrivere per convincervi a giocare a Zelda: Breath of the Wild se ancora non lo avete fatto? Che potete prenderlo per il verso che vi pare, affrontandolo spensieratamente alla cazzo di cane o da completisti ossessivo-complusivi senza tradirlo in nessuno dei due casi? Che la realizzazione artistica e la palette cromatica sono da levare il fiato? Che la fisica e la chimica del gioco andrebbero insegnate nelle scuole? Che è uno di quei giochi che capitano appena una manciata di volte nella vita? No, sul serio, ditemi quello che volete e io lo scrivo. Dove vi pare, dappertutto, anche sui muri. Purché giochiate all’ultimo Zelda.

Gregory Raffa

Non sarò sicuramente l’unico tra i miei colleghi a dare la palma del miglior gioco del 2017 a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, ma credo che il mio commento sarà un po’ fuori dal coro, perché credo che Breath of the Wild non sia lo Zelda che ci meritiamo, ma lo Zelda di cui abbiamo bisogno. Ho speso circa duecento ore per le praterie di Hyrule e sono conscio di non aver visto praticamente nulla della miriade di cose che il gioco ha da offrire. Le qualità di questo titolo sono state già discusse, scritte e lette ormai ovunque, quindi non le ripeterò. Mi limiterò a spiegare quanto affermato prima. The Legend of Zelda: Breath of the Wild innova non solo il brand, ma tutto l’universo dei giochi open world, e c’era bisogno per Nintendo sia di qualcosa che scuotesse le meccaniche trentennali della serie, sia di un titolo così enorme che andasse in contro al pubblico di oggi. Però io sono un vecchietto, e Zelda è da sempre la mia serie preferita, quindi pur riconoscendogli un immenso valore sotto mille aspetti, non riesco comunque a non pensare a quanto mi manchino i dungeon classici e il senso di progressione “obbligato” degli episodi “standard”, dove per accedere alle diverse aree di gioco è necessario conquistare oggetti di vario tipo. Mi piace trovare un buco e pensare “qui ci torno quando avrò gli stivali per saltare”, o sfruttare una Coccò per raggiungere zone sopraelevate apparentemente precluse al passaggio. Insomma, mi piacciono gli enigmi e Zelda è sempre stato un gioco dove la ricerca e l’intelletto erano costantemente al centro dell’attenzione. Non che in Breath of the Wild questo si sia perso del tutto, ma la formula è drasticamente cambiata. Un bene? Un male? Questo non sta a me dirlo. Di certo spero che nel prossimo capitolo Nintendo riesca a trovare un matrimonio tra le due formule, dando un contentino anche ai fondamentalisti come me. Per il resto, nulla da dire: forse nel mio cuore non si tratta di un vero Zelda, ma fuor di ogni dubbio The Legend of Zelda: Breath of the Wild è un gioco maestoso, che merita di essere giocato e ricordato per sempre come il titolo che ha oltrepassato una soglia, una soglia dalla quale non si può più tornare indietro. 

Marco Esposto

Crash Bandicoot N. Sane Trilogy. Oh, non è per niente il gioco più bello dell'anno, OK? Forse per molti non è il gioco più bello di mai nella vita. Ma non ho Switch e pur avendo giocato a un sacco di roba bella, se devo pensare al 2017, penso a Crash. Penso a quanto ho aspettato per capire cosa fosse questa trilogia. Che pur con le sue pecche è riuscita a ridarmi Crash e farlo tornare nel bene e nel male sulla bocca di tutti. Quindi sarò onesto con voi, voglio esserlo, e metterò Crash come mio titolo dell'anno. Perchè Crash Bandicoot era quel gioco fatto da un gruppo di ragazzi nel 1996 che si sono visti davanti più soldi di quanti ne avessero mai visti per fare qualcosa e il timore di creare un platform in 3D quando ancora non esistevano. L'unico pensiero era che Nintendo stava producendo qualcosa in quel campo. Qualcosa che lo so, ha stravolto tutto, ma ha comunque fatto altro, ha giocato in un campo diverso, mi azzardo a dire. Per vent'anni la gente ha gridato per riavere Crash indietro ed è successo. E chi come me lo rivoleva è stato felice del suo ritorno. Quindi, a costo di annoverarlo tra i guilty pleasure della mia vita, fatemi dire che io a Crash voglio proprio bene, con quelle musiche, con quei suoni, con quei colori. E Mario? Mario ha soddisfatto tutti quelli che da dieci anni volevano il suo ritorno dopo i fasti di Mario Galaxy? Non mi pare, da quel che sento in giro. E poi 10 di qua, 9,5 di là... ma dal vivo? Un po' di sbuffi, un po' di sgomento, un po' di “No va beh adesso sembra che non mi sia piaciuto, ma...”. Giù la maschera. Sta cadendo il vostro castello di carte. Le texture del tirannosauro possano perseguitarvi per sempre.

Lorenzo Baldo

Super Mario Run si palesò e io andai in berserk, riversando tutta la mia frustrazione in un editoriale carico di livore. Ero stufo marcio dell’immobilismo di Nintendo, non vedevo l’ora di accantonare il flop Wii U, una console vittima di sé stessa, e aprire così un nuovo capitolo. Avevo mille domande, altrettanti dubbi e una voglia matta di capire cosa si celasse sotto il nome in codice NX. L’attesa si è fatta snervante, ma ne è valsa la pena.

A distanza di oltre un anno da quello scritto, che non rinnego minimamente, non ho niente di che recriminare. Switch è il mio personalissimo GOTY, l’unico antidoto al logorio del gameplay moderno. Il nuovo corso si è aperto con The Legend of Zelda: Breath of the Wild, acuto di una ludoteca concreta, che coniuga prime visioni assolute e apprezzabili repliche. Dieci milioni di unità vendute nell’arco di appena nove mesi sono un ottimo ruolino di marcia, per una console unica nel suo genere, non solo per la sua natura ibrida.

Altro non ho da aggiungere, nella speranza che il trend persista e che il 2018 sia altrettanto ricco di soddisfazioni.

Antonio Bellotta

Io già me l’immagino il listone interminabile di Outcast, colmo come sempre di pareri e valutazioni circa il GOTY 2017, ma che mai come quest’anno sarà (probabilmente) polarizzato da un paio di titoli davvero clamorosi. A lungo mi sono interrogato circa l’effettiva utilità di aggiungermi anche io a questo (forse) inevitabile plebiscito ma mi sono poi reso conto che quando nella vita ho cercato fare l’originale a tutti i costi ho fatto le peggiori stronzate. Perciò senza ulteriore indugio, per me il Gioco dell’Anno 2017, e per certi versi anche il Gioco del Lustro Scorso ©, è The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Ricordo poche esperienze così impattanti ed emozionanti nella mia carriera da videogiocatore: oltre 100 ore di pura estasi visiva, emotiva, narrativa e “giocativa”. Dopo anni di open world più o meno riusciti, Nintendo mette tutti in riga con un Aonuma che fa: “Ah, voi volete fare gli open world? Ve lo faccio vedere io come si fanno gli Open World!”. E niente, capolavoro della vita.

A ruota, poco dietro, c’è Super Mario Odyssey, che in qualsiasi altro anno meno affollato di bei titoli sarebbe stato in cima. Forse è meno rivoluzionario e più manierista del suo fratello avventuroso ma segue la stessa filosofia di fondo: “Ah, voi volete fare i collect-a-thon? Ve lo faccio vedere io come si fanno i collect-a-thon!”. E niente, capolavoro anche qui.

Premio Speciale “Gesù di Nazareth” a Sonic Mania, che ha resuscitato il porcospino blu dalla sua tomba scavata in anni di pessimi titolacci in 3D, riportandolo ai suoi fasti pixellosi e provando che la nostalgia fine a sé stessa avrà anche rotto le palle, ma a volte basta relativamente poco (tipo l’amore smisurato di un gruppo di fan) per rielaborarla e creare qualcosa di pregevole, pur senza rivoluzionare il mercato.

Quindi Zelda, Mario e Sonic in classifica. Benvenuti nel 1992.

Nicola Alessandro Del Monaco

Super Mario Odyssey, gente.

Non c’è titolo che m’abbia tenuto incollato per più ore consecutive e dal quale non riuscissi a staccarmi, che mi ha fatto GODERE più e più volte, che mi ha fatto superare ogni record possibile d’uso della console. Ogni singolo momento in quel gioco m’ha fatto tornare
bambino.

Runner Up: Thimbleweed Park. Anche da lui non son riuscito a staccarmi per un intero weekend, notti comprese. Merito anche del meraviglioso adattamento di Fabio.

Lorenzo Antonelli

F1 2017. Per la forza e la gentilezza con cui è riuscito a rapirmi e continuamente assorbirmi in postazione di guida. Per aver trasformato l’atavica noia della Formula Uno in un’ossessione fanatico-compulsiva, fatta di infinite prove cronometrate, molteplici carriere in contemporanea e tutto un bisogno di guidarlo ancora più forte, ancora un giro e poi smetto lo giuro. Perché è un generatore di pura adrenalina, un simulatore perfettamente equilibrato e galvanizzante, accessibile e impegnativo, caratterizzato da un sistema fisico credibile, godibile e mai irragionevole. Perché è la mia personalissima riscoperta di un (motor)sport che credevo fosse una palla al cazzo, è invece s’è rivelato superfregno tanto quanto Assetto Corsa o Gran Turismo Sport.     

Aurelio Maglione

Mi sento un po’ paraculo a proporvi il mio GOTY perché in questi dodici mesi ho preferito recuperare una serie di titoli che mi ero lasciato per strada nel corso degli ultimi anni, piuttosto che dedicarmi alle nuove uscite. In ogni caso, mi risulta difficile immaginare che possa esistere un’opera del genio umano in grado di piacermi più di Prey, quindi il problema si pone fino a un certo punto. Il capolavoro di Arkane ha il pregio non banale di portare su un livello superiore tutto ciò di straordinariamente bello che si era
già visto in Dishonored. Qui la cura maniacale dedicata al design delle ambientazioni abbraccia la struttura aperta tipica dei metroidvania, mentre la creazione di un universo pregno di fascino si affianca al racconto di una storia tanto intrigante quanto ambiziosa, con il suo fascio di sottotrame che si intrecciano per dar vita a un racconto corale di rara potenza. Dulcis in fundo, la totale libertà d’azione concessa al giocatore, così inebriante da risultare quasi eccessiva. Probabilmente si tratta del punto più alto raggiunto in cinquanta e passa anni di storia del medium, meglio di così non si può fare.

P.S.
Una menzione speciale per Yakuza 0, perché a dispetto di personaggi e situazioni meravigliosamente sopra le righe, riesce a raccontare una storia densa di un’umanità struggente. Un autentico miracolo.

Fabio Di Felice

Quando ti esce Zelda non è che puoi metterti più di tanto a spulciare la lista dei giochi usciti quest’anno. Sai già che la prima posizione è inevitabile. A maggior ragione per questo Zelda qui, che ha messo d’accordo tutti e ha probabilmente sancito il successo di una console straordinaria come Switch. Quindi ode a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, non solo per essere un gioco della Madonna su cui, obiettivamente, non posso scrivere più di quanto sia stato scritto dall’intera comunità di videogiocatori andata in totale estasi, ma anche per aver convinto me a credere ancora nella magia Nintendo dopo la fregatura di Wii U. Voglio dire solo che quando ripenso all’ultima avventura di Link, l’immagine che mi viene in mente è questa: l’eroe in casacca azzurra sulla cima di una collina, in lontananza un maneggio, il sole scende dietro l’orizzonte colorando la vallata di un arancione intenso. Il vento trasporta il suono lontano di una fisarmonica che intona la Zelda Lullaby. E io piango.

Menzione d’onore a: Persona 5 perché è una delle robe esteticamente più belle su cui abbia mai posato gli occhi, e a Yakuza 0 per avermi fatto scoprire quanto mi piace pestare gli sgherri della mafia giapponese.

Giuseppe Colaneri

The Legend Of Zelda: Breath Of The Wild. Assolutamente. No brainer. Probabilmente per molti, mica solo per me. Il perché ve lo hanno detto in molti, quindi vi dirò solo che, da Nintendaro incallito, è un gioco che è riuscito persino a superare le mie aspettative.

Premio gioco dell’anno non Nintendo: Persona 5. Perché il mio runner-up per il GOTY è ovviamente Super Mario Odissey. L’ultima fatica Atlus è un gioco di puro stile, ma anche di tantissima sostanza. Un Persona superclassico ma che sa anche re-innovarsi con gusto, diventando più snello senza rinunciare ai cento miliardi di ore necessari a finirlo. Che però volano via sempre lisce, come l’olio.

Premio “Zona Cesarini”: Nier: Automata. Graficamente mediocre. Battle system incredibilmente fiacco. Level design da denuncia penale. Ripetitivo all’inverosimile. Eppure ha uno dei “true ending” più belli della storia tutta del videogioco che, sotto sotto, ti fanno volergli bene. Vaffanculo, Yoko Taro.

Alessandro Di Romolo

Dio benedica Arkhane Studios, Prey è una meraviglia. Al netto di una trama sci-fi come se ne sono viste tante, rimette al centro del villaggio la chiesa del gameplay. Ti dà questa immensa stazione spaziale e un biglietto per esplorarla da cima a fondo, nella maniera che tu ritieni più giusta, restituendoti il gusto della scoperta di luoghi non segnati sulla mappa e di partecipare a un'esperienza davvero ritagliata su misura per il tuo stile di gioco. In una run e mezza sono riuscito a provare forse la metà dei poteri disponibili nello skill tree, ho compiuto scelte differenti e apprezzato la grande libertà d'approccio che questo gioco offre. Il tutto condito da una direzione artistica da leccarsi i baffi e immerso in un'atmosfera opprimente, che spinge il giocatore ad aguzzare l'ingegno e a dar fondo a tutte le proprie abilità per poter gestire le risicate risorse di cui dispone. Dopo Prey vorrei che tutti i giochi fossero come Prey

Alessandro De Luca

A differenza di quelli passati, quest’anno ho un chiaro vincitore di gioco dell’anno, ma prima di nominarlo vorrei parlare velocemente di due altri titoli che meritano di essere menzionati. Uno è Nioh, la non più esclusiva PlayStation 4 (è disponibile da poco anche su PC) sviluppata da Koei Tecmo, che mi ha catturato fin dal lancio e a cui ho giocato a fondo. Pensate che l’ho persino finito! L’altro è The Legend of Zelda: Breath of the Wild, uno splendido open world che mostra ancora una volta l’abilità di Nintendo nel creare e reinterpretare generi e meccaniche con il loro tocco, che ha qualcosa davvero di magico.

Per quanto ottimi, Nioh e Breath of the Wild mi hanno coinvolto meno del mio gioco preferito di questo 2017, Horizon: Zero Dawn, anche questo per PlayStation 4 e sviluppato da Guerrilla Games. Il team olandese ha finalmente dimostrato di essere capace di abbinare la sostanza all’eccellenza tecnica per cui erano famosi. Horizon: Zero Dawn mi ha catturato inizialmente grazie alle meccaniche di gioco, che ricordano una delle mie serie preferite, Monster Hunter, ma è la storia il suo vero punto di forza. Una storia di fantascienza ambientata sulla Terra del XXXI secolo, un mondo in cui l’umanità è regredita a uno stadio primitivo tribale a causa di una non meglio precisata calamità, verificatasi in un lontano passato, e abitato da animali e bestie robotiche la cui origine è sconosciuta. Ho adorato tutto, del mondo di Horizon: Zero Dawn. La protagonista Aloy, una ragazza alla ricerca di se stessa e del suo passato, gli antagonisti e i vari personaggi che aiutano Aloy nel corso della sua avventura, ma soprattutto la storia dell’umanità e di quello che l’ha portata sull’orlo dell’estinzione. Non mi succedeva da molto, ma ho davvero giocato a Horizon: Zero Dawn per vedere come andava avanti la storia, e ovviamente hanno aiutato le ottime meccaniche di gioco. Nonostante si appoggi su mezzi narrativi già visti in passato, come registrazioni video e audio e pezzi di diario, ho divorato questi contenuti, invece di saltarli a piè pari come ho fatto tanto spesso in passato. Purtroppo, non ho trovato il tempo di giocare al DLC uscito un paio di mesi fa (e nemmeno a quelli di Breath of The Wild), ma spero di riuscirci prima o poi.

Alessandro Billeri

Quest’anno è uscita la console fissa-mobile. Un gioiellino!

Per me che sono ormai un giocatore solo mobile, è la migliore cosa mia vista nell’universo.

Ed è uscita con un gioco epocale: The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Potrei fermarmi qui ma non c’è la faccio.

Epocale. Fiabesco, magico, leggendario, contemporaneamente gioioso e triste, epico e ordinario, serioso e clownesco , infantile e adulto. Forse non ci sono i poligoni che si possono vedere sulle console più muscolose, ma è ugualmente una meraviglia anche dal punto di vista tecnico: arrivi da un capo all’altro di Hyrule senza un caricamento visibile, senza un’esitazione, con il mondo che ti scorre intorno pienamente realistico e attivo. Un open world talmente vario e dettagliato che non sembra nemmeno un open world. Un gioco mastodontico in cui nulla è lasciato al caso.

È stata un’annata meravigliosa per i videogiochi ed è un peccato premiarne solo uno ma ci vorranno anni per vedere qualcosa di lontanamente paragonabile a questo Zelda.

Davide Mancini

Il 2017 è stato pazzesco, pieno di giochi bellissimi, e dunque eleggere il titolo dell’anno è una roba che mi fa salire l’ansia che mi basta per i mondiali che l’Italia non giocherà. La risposta più corretta sarebbe sicuramente What Remains of Edith Finch, visto che l’ultima opera di Ian Dallas è una fra le esperienze narrative in prima persona più riuscite di sempre, perché ha la capacità di utilizzare in maniera intelligente, originale e complessivamente sublime la ricchezza espressiva del videogioco come contenitore di codici diversi. In What Remains of Edith Finch, forma e contenuto sono indissolubili, e veicolano un messaggio che non può essere scisso dal gameplay: è un walking simulator in cui l’interazione, ad ampio spettro, si fa portatrice di senso al di sopra di tutto, ed è un’opera di un’eleganza maestosa. C’è però il fatto che sono una persona orribile, e se devo ascoltare la pancia, il gioco che mi ha scimmiato di più a livello ignoranza brutta è Assassin’s Creed Origins, perché dopo l’E3 non ci avrei scommesso due euro, dopo la Gamescom al massimo mi sembrava una roba a modino, e invece mi sono trovato a passare sessanta ore in Egitto e avere ancora la voglia di spendere del tempo per andare alla ricerca di nuovi dettagli. Nella mia vita ho platinato soltanto Assassin’s Creed II per pura volontà, ma Origins secondo me farà la stessa fine, perché è un piacere da giocare, e non ha neanche le piume da cercare. È a mani basse il miglior open world mai realizzato da Ubisoft, ne eredita tutte le caratteristiche più riuscite e rappresenta una ventata d’aria nuova per un franchise che sembrava avviato a un triste destino. Ammetto di avere una sorta di perversione per la saga, ma Origins è il tripla A con cui mi sono divertito, genuinamente e di gusto, maggiormente durante l’anno, e sa coniugare benissimo la sua anima pseudo-storica con un una voglia di avventura che sprona ad andare avanti, a esplorare per la gioia di farlo, e scoprire cosa si cela dietro ogni duna dà realmente valore aggiunto all’esperienza. Il suo senso di progressione e un’incredibile coerenza con la storia che vuole portare avanti ridanno lustro a un’IP che resta, teoricamente, uno fra i migliori concept degli anni 2000. E se magari nelle terre francocanadesi capiscono che se ne fanno uscire uno ogni tot anni è una situazione win-win, è capace pure che ne tirano fuori altri, di giochi belli.

Stanlio Kubrick

Persona 5. Non so cosa ci sia di preciso nell'idea di tornare adolescente e rivivere un anno di scuola insieme ai miei compagnucci del <3 che mi attira così tanto, soprattutto nella misura in cui la mia adolescenza è stata sì una figata ma ho già fatto, grazie, e non lo rifarei più. Eppure quest'anno l'ho rifatto, per circa boh, centoventi ore? Più o meno. Cosa mi ha convinto? Lo SWAG. Amo Persona da quando uscì il 3, la formula è sempre quella, la conosciamo, ogni giorno ci si sveglia nei panni di [protagonista], ci si organizza la giornata, si va a scuola, si esce con gli amici, occasionalmente si entra in un dungeon pazzo a uccidere mostri in combattimenti a turni costruiti sulla sempre valida struttura del carta-sasso-forbice che nei giochi di ruolo giapponesi esiste più o meno in questa forma dai tempi di [nome di gioco]. Persona 5 è così ma intriso di SWAG, ovunque, nei menu, nella musica, nel modo in cui il puntatore saltella tra le opzioni durante un combattimento, è tutto stiloso e snellito, rapidissimo ed elegante, è tutto così figo. Hanno rifatto i dungeon, che ora hanno senso, personalità, sono tematici, sono disegnati e strutturati, non random; c'è un twist a metà storia che è uno dei momenti narrativi più belli che abbia mai incontrato in un videogioco. C'è il solito Persona, fatto meglio, in un pacchetto clamoroso e completo, con una storia alle spalle che è puntualissima per il 2017. C'è tutto, e spacca.

Visto che fa brutto non citare nulla d'altro in un'annata pazzesca come questa, via di menzioni speciali: Horizon: Zero Dawn perché ha il coraggio di fare una domanda essenziale («Robosauri?») e per il miglior sistema di tiro con l'arco della storia del medium; The Legend of Zelda: Breath of the Wild perché nonostante le armi che si rompono se ci starnutisci sopra è il miglior Zelda dai tempi di Link's Awakening; Assassin's Creed Oranges perché un anno di pausa passato a giocare a The Witcher 3 e Dark Souls ha fatto miracoli; Uncharted: L'eredità perduta perché dimostra che Uncharted funziona anche senza Nathan Drake; What Remains of Edith Finch? perché ha reso irrilevanti tutti gli Everybody's Gone to the Rapture e Gone Home del mondo; Gravity Rush 2 perché me lo sono cagato solo io e invece rimane il gioco con il miglior sistema di andare in giro per il mondo dell'anno; Dishonored 2 perché poverino fosse uscito un anno fa starei parlando solo di lui; Ys 8 perché se volete ne parliamo; un botto di altra roba che non ho manco spazio per citare senza scrivere un altro articolo (Night in the Woods, Life is Strange: Before the Storm che sorprendentemente spacca... ), e infine The Ringed City, l'ultimo DLC di Dark Souls III, perché addio Dark Souls, mi mancherai.

Andrea Maderna

Secondo quel che mi dicono le classifichine da malato di mente su Grouvee, il mio gioco preferito del 2017 è Prey. Nonostante roba tipo Super Mario Odyssey, Nex Machina e Thimbleweed Park. Come mai? Perché, molto semplicemente, è la miglior rilettura moderna, o forse dovrei dire contemporanea, del modello di gioco nato dai vari System Shock, Thief, Ultima Underworld, Deus Ex... e insomma, ci siamo capiti. E stiamo parlando di quello che forse è il mio genere preferito da quando sono passato all'età adulta. Mentre ci passavo, al'età adulta, mi sa che erano gli sportivi. Prima di passarci, erano nettamente le avventure grafiche. Da bambino, erano i ma cosa cazzo ne so basta che ci siano i pixel. Ma da adulto mi sa che è questo. E Prey prende a cappellate sulla faccia i nuovi Deus Ex, i BioShock, perfino i Dishonored. Insomma, ficata.

Questo articolo fa parte della Cover Story "I migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.

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