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Racconti dall'ospizio #144: Wonder Boy allo stabilimento balneare

Racconti dall'ospizio #144: Wonder Boy allo stabilimento balneare

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Gran parte delle mie estati da piccolo e piccolissimo è stata trascorsa in Abruzzo, dove andavo a parcheggiarmi, talvolta anche per mesi, nelle case dello ziame assortito di lato materno. «Magna, zizzì!» In realtà, i miei ricordi d’infanzia sono un maelstrom confusionario da cui emergono singoli episodi piuttosto netti, quindi non saprei dire di preciso come in questa faccenda si inseriscano anche le altre fasi vacanziere, liguri e financo francesi, ma insomma, l’Abruzzo era – e continua ad essere – una costante delle mie estati. Del resto, quella del bimbo parcheggiato dai parenti quando finisce la scuola è, credo, un’esperienza abbastanza condivisa. È a Giulianova, per dire, che ho imparato ad andare in bicicletta. Ho perfino fatto la patente, a Giulianova, pensa te. E imparare a guidare in mezzo ai semafori costantemente spenti sulla nazionale, oh, non è stato banale. Se quella del “parcheggio” estivo è un esperienza, suppongo, abbastanza condivisa anche dai giovani d’oggi, ce n’è un’altra che, per forza di cose, condivido più che altro con quelli della mia generazione, al limite di quelle immediatamente precedenti e successive.

Mi riferisco al videogioco arcade, ai coin-op, ai cabinati sparsi fra sale giochi, baretti e stabilimenti balneari. La sala giochi, per me, era in realtà un’esperienza piuttosto rara, speciale. Certo, a Milano ce n’erano due o tre di sicuro spessore, ma per qualche motivo le frequentavo poco (il New Rocky, va detto, divenne luogo fondamentale della mia tarda adolescenza, trascorsa assai lontano dai banchi, ma quello è un altro discorso). E poi c’erano quelle marittime, le sale giochi con le ultime novità che, per qualche motivo, non si trovavano mai dove trascorrevo le vacanze, ma sempre nella cittadina limitrofa da raggiungere con l’autobus. Tipo, in Abruzzo stavo a Giulianova ma la sala giochi era ad Alba Adriatica; in Liguria stavo a Celle Ligure e la sala giochi era a Varazze. Insomma, dovevo essere accompagnato, era un evento. Però, come dicevo sopra, c’erano i baretti, c’erano gli stabilimenti balneari.

Tanti, tanti giochi dell’epoca li ho scoperti nei due baretti del quartiere a Milano, che aggiornavano la dotazione in maniera abbastanza costante. A questo si aggiungeva il bar della metropolitana di… mmm… posso sbagliarmi ma voglio dire Pagano, dove c’erano tre cabinati e uno era spesso una novità di un certo spessore. Per esempio, ho grandi ricordi dei picchiaduro a scorrimento Konami legati a quel posto. Quando si andava al mare, invece, una grande tradizione era la passeggiata lungo TUTTA la spiaggia, spesso interminabile. Ovviamente, mentre l’adulto di turno si godeva il piacere della passeggiata, il punto, per me, era fare una sorta d’inventario dei coin-op proposti da ogni singolo stabilimento, per pianificare le fughe armato di banconota, col fine di acquistare una frittella e spendere il resto in partite. Non tutti ne avevano, di cabinati, ma erano parecchio diffusi e del resto non pretendo di conoscere le dinamiche della cosa ma, insomma, immagino ci si guadagnasse un po’. Anche in quell’ambito, c’era il luogo ambito, lo stabilimento un po’ più grosso (La Rotonda!), raggiungibile con sforzo relativo, dove potevi trovare tre o quattro giochi e magari l’ultima novità. Ma insomma, se ne trovavano un po’ dappertutto.

A me capitava spesso di andare allo stabilimento La Stella Marina, un po’ perché era situato in posizione comoda, un po’ perché per qualche tempo mio cugino veniva impiegato lì come bagnino. Che roba assurda, a ripensarci: da bambino, mio cugino di quindici anni, nella mia testa, era quello grande. Oh, del resto, andava in motorino, faceva il bagnino… era grande, no? Comunque, sicuramente anche La Stella Marina ebbe la sua bella rotazione di giochi, ma io, lì, ricordo solo due cose. C’era uno di quei giochi meccanici con un labirinto in cui far scorrere una gomma da masticare e una biglia che potevi vincere portandole all’uscita. Se volevi giocare, giocavi, era divertente. Se volevi vincere, beh, ovviamente c’era il cheat: lo sbatacchiavi per far saltare la biglia nel percorso della cicca, molto più facile. Ecco, per me, La Stella Marina è il luogo di quel labirintello lì. E di Wonder Boy.

Nei miei ricordi, Wonder Boy è un gioco tutto matto, in cui dovevi correre costantemente, l’accetta mi sembrava un’arma insopportabile, lo skateboard era bellissimo ma cacchio se era difficile da usare al meglio, la faccenda di dover costantemente raccogliere frutta perché l’energia si consumava mi faceva innervosire e, beh, in buona sostanza, era un po’ troppo tosto. Ma era bello! La musichetta era adorabile e poi va che grafica, che c’aveva. Era tutto grosso e colorato. Nei miei ricordi, ripeto, eh: mentre scrivo, non ho ancora guardato il video che trovate qua sopra. Non credo di essere mai andato troppo avanti, in sala giochi, probabilmente fino a metà gioco. O forse un po’ di più. Sicuramente a un certo punto mi si è chiusa la vena sul collo e ci ho speso svariate migliaia di lire per finirlo. Mi capitava spesso.

Ci giocai poi un sacco anche a casa, su Sega Master System, e quella versione, credo, la finii, anche se nella mia testa era una versione un po’ sfigata. All’epoca ero molto schizzinoso, nei confronti delle conversioni casalinghe. Non tanto per la grafica, che in fondo eri costretto ad accettare e che comunque nel caso di Wonder Boy, da quel che vedo qua sotto, non era niente male, quanto proprio per le modifiche, i cambiamenti, i tagli, le aggiunte. A volte erano anche per il meglio, eh, ma era proprio una questione filologica. Ero già un rompicoglioni che criticava le modifiche di adattamento before it was cool on the internet. Anzi, a dirla tutta, lo ero molto più di quanto non lo sia oggi.

Wonder Boy poi divenne una serie, che costruì praticamente da sola il mito di Ryuichi Nishizawa. Anzi, volendo, divenne tre serie. Prima ci fu quel Wonder Boy in Monster Land che rielaborava tutto in chiave avventurosa/gidierristica e che da un lato fu una roba clamorosa ma dall’altro non mi convinse mai, un po’ perché «Ma non è un seguito vero!», un po’ perché mi sembrava una specie di via di mezzo né carne né pesce, che non aveva la semplicità dei giochi arcade veri ma non aveva manco la profondità dei giochi avventurosi veri. L’ho detto, no, che ero già un bel rompicoglioni? E poi, appunto, arrivò la terza e ultima uscita arcade, quel Wonder Boy III: Monster Lair che recuperava un po’ lo stile originale, ma arrivarono anche i clamorosi Wonder Boy casalinghi, che portarono avanti in maniera molto più compiuta l’evoluzione “avventurosa”, mentre il Wonder Boy classico, per tutto quel delirio di gestione dei diritti che evito di approfondire, andò sostanzialmente avanti con gli Adventure Island.

Il paradosso? Dopo aver fatto tanto lo schizzinoso con Monster Land, ignorai completamente il filone “classico”, perché nella mia testa erano cazzatine semplicistiche, e adorai invece i Wonder Boy successivi su Master System e Mega Drive, davvero belli, profondi, appassionanti. O forse non c’era nulla di paradossale, via: è solo che volevo quella cosa lì, ma fatta bene e fino in fondo, senza timidezza. Infatti, nei confronti del Wonder Boy originale, provo una forma strana di affetto. Da un lato gli voglio bene, perché comunque, per un certo periodo, fu un gioco a cui giocai tantissimo, prima in sala giochi e poi a casa. Dall’altro, non me ne frega proprio nulla, perché per me Wonder Boy è quello venuto dopo. E che ci dobbiamo fare? No, niente.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Jurassic Outcast”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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