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The Wreck mi ha parlato come nessun gioco aveva fatto mai

The Wreck mi ha parlato come nessun gioco aveva fatto mai

Un accendino rosso, un paio di occhiali da sole, una conchiglia, una spazzola per capelli, uno specchietto, un cellulare fermo alle 17:48, una copia de L’uomo dai mille volti di Joseph Campbell, una scatola di mentine con un uccellino disegnato sopra. Questo è il contenuto dello zaino di Junon nel momento esatto in cui si ribalta con la sua auto. 

Lei è Junon.

Sempre più spesso mi capita di cominciare un libro in concomitanza di un videogioco. Pesco a caso dal mio tsundoku sempre più alto, spinto da una vocina interiore che mi dice "questo è il libro giusto in questo momento". Per i videogiochi, invece, ormai la scelta è quasi esclusivamente dettata da parametri autoimposti che rispondono a: studio piccolissimo spesso formato solo da una o due persone, narrazione sopra al gameplay, direzione artistica originale. Anche stavolta la vocina non si sbagliava. The Wreck di The Pixel Hunt e Nova di Fabio Bacà sono andati di pari passo fino alla conclusione. Ho portato avanti le due storie parallelamente e più di una volta non solo si sono sfiorate ma addirittura toccate, in barba all'assioma euclideo.

La sequenza della casa delle bambole è uno dei momenti esteticamente e concettualmente più belli del gioco.

Secondo me c'è un punto preciso in cui convergono, apparentemente nascosto sotto a strati di narrazione più diretta e romanzata. Junon, la protagonista di The Wreck e sceneggiatrice in crisi, ammette candidamente all'inizio del gioco che le "piacciono le commedie romantiche di merda". Ma più avanti spiega che il motivo per cui è attratta così tanto è che "per me qualsiasi fiction diventa un documentario [...] in cui cerco un modello che mi spieghi come sentirmi" (Joseph Campbell docet). Sia The Wreck che Nova potrebbero all'apparenza sembrare due commediole. Sono entrambi slice of life di famiglie disfunzionali, segnati da eventi traumatizzanti. Ma questa è solo la chiave di lettura più semplicistica. Scavando a fondo, le due storie ruotano intorno a una parola e un tema ben preciso: la violenza.

Aragoste come metafora della vita.

Metto subito in chiaro una cosa per poi non tornarci più, perché come sempre le mie disamine non vogliono essere recensioni, che a mio avviso lasciano il tempo che trovano. Sono invece considerazioni personali, ciò che alla fine della fiera un’opera mi ha lasciato e che cerco di riportare sempre al mio vissuto personale. Per questo non mi interessano tanto gli aspetti tecnici, il gameplay, la durata di un gioco. Anzi più l’esperienza è concentrata e a fuoco, più mi appaga. Non sopporto le diluizioni inutili. In The Wreck ci si muove in diorami tridimensionali e si fa avanzare la storia attraverso alcune parole disseminate lungo la scena di turno. Queste ambientazioni non sono altro che la visualizzazione di ricordi cristallizzati nella mente della protagonista Junon. Gli oggetti usciti dallo zaino di cui all’inizio svolgono la funzione di madeleine proustiane. Innescano la scintilla per riportare in vita nella sua mente alcuni momenti significativi del passato, che vanno a ricostruire in maniera non lineare la sua storia e quella della sua famiglia. Un aspetto visivo che mi ha colpito e che ho trovato davvero elegante e funzionale come scelta estetica è che le immagini non sono mai a fuoco, sono sempre un po' scomposte, come se osservate attraverso un prisma. Anche questo ha un significato all’interno del racconto, ma lascio a voi l’interpretazione, anche se sono arrivato ad una conclusione piuttosto convincente. In questi diorami, il giocatore si sposta manovrando la telecamera virtuale in avanti o indietro, fino a far comparire in alcuni hotspot una parola che sbloccherà altri pensieri ed altre parole. Un incrocio insomma tra The return of the Obra Dinn e Immortality, senza però kraken o spiriti mefistotelici. Bene, ora che mi sono tolto di mezzo la descrizione tecnica di come funziona The Wreck, cercherò di addentrarmi nel suo contenuto semantico profondo.

“Ci si adatta” si dice Junon “La gente lo fa in continuazione. Bisogna farlo”

C'è una scena apparentemente insignificante, nel gioco. Una televisione sintonizzata su un canale dove in un fermo immagine un leopardo azzanna un cerbiatto (o almeno credo che sia un cerbiatto, visto che “fawn” è un nomignolo che Junon usa spesso). L'occhio del cerbiatto è fisso, vuoto. La violenza primordiale esplode in tutta la sua efferata potenza e nulla può l’indifeso cerbiatto. Sia il neurochirurgo Davide in Nova che la scrittrice Junon in The Wreck, nel finale, si ritrovano al capezzale di una persona morente e devono decidere cosa fare. Lasciar morire per salvare se stessi? O illudersi che tutto sarebbe andato per il meglio? Mentre nel romanzo di Bacà la risposta rimane sospesa, nel videogioco possiamo chiudere la storia a nostro piacimento. Nella mia esperienza personale, mi sono ritrovato in una situazione simile per ben due volte. Una quando a mia madre è stata diagnosticata la SLA (guarda caso anche nel romanzo di Bacà si parla di SLA) e una quando alla nascita del mio secondo figlio è stata diagnosticata una malattia rara genetica. Il buio ti assale, miliardi di dubbi si affastellano nella tua mente, non si è lucidi. Devo dire la verità, ho desiderato per entrambi la morte. 

Che vita è se non puoi volare?

Junon bambina, in una delle primissime scene del gioco, insieme alla sua sorellastra Diane, trova in giardino un uccellino caduto dal nido. Lo portano a Marie, la mamma di Junon, pittrice con una carriera in ascesa, che rassicura entrambe che se ne sarebbe presa cura lei. La mattina dopo l’uccellino non c’è più, Marie dice alle bambine che stava meglio e che è volato via. Ma Junon sa che non è così. Marie ha ucciso l’uccellino perché non sopportava di vederlo soffrire. “Che vita è se non puoi volare?”, dice Marie, lei è una da “tutto o niente”. Anche io avevo pensato la stessa cosa dopo quelle “sentenze” su mia madre e mio figlio. Poi, con lucidità, dopo molte lacrime e notti insonni, ho accettato gli eventi. Invece di essere roccia in un fiume che scorre impetuoso, sono diventato acqua e mi sono fatto trasportare. Oggi, mia madre, a tredici anni dalla diagnosi, è ancora viva, nonostante una tracheostomia e un corpo totalmente immobile. Le sono rimasti solo il sorriso e gli occhi ma questo le basta per comunicare che ancora ha voglia di vivere e regalare speranza. Mio figlio ha sette anni, deve fare delle terapie giornaliere, è ipovedente ma vederlo crescere e raggiungere obiettivi impensabili è una gioia immensa. Va a scuola, ha imparato a leggere e scrivere, è un campione di Mario Kart 8 (ora purtroppo ha scoperto Stumble Guys). 

Alone è forse la parola che può condensare tutto il gioco

Anche se non sembra, The Wreck è un gioco sulla scrittura e sulle parole. La scrittura come espediente salvifico. Permette a Junon di scambiare i ruoli, di "non essere più la madre…, o la giovane …, o la figlia di". Attraverso la scrittura si inventa una realtà che può essere altrettanto valida. Le parole hanno un ruolo parimenti importante. A volte compaiono, ma appena ci si avvicina con il cursore subito spariscono, si dissolvono. E il dialogo prende pieghe inaspettate. Quante volte ci rammarichiamo per non aver trovato le parole giuste in momenti difficili? Nel gioco questa cosa viene magistralmente portata davanti agli occhi del giocatore che si rende conto proprio a livello visivo dell’importanza delle parole nelle relazioni interpersonali. Solo dopo aver rivissuto i ricordi, gli aneddoti, tirato fuori le emozioni e messo da parte il rancore, la rabbia e la violenza si rimaterializzano quelle parole che prima erano sfuggite. Le ho annotate quasi tutte e già da sole potrebbero bastare a compilare un dizionario di self help. Trust me, Care, From the ground up, Unbroken, He’s hurt too, Not enough, Still with me, Beam of Sunlight. Sono parole che possono aiutare nei momenti bui, che dette a noi stessi o alle persone care, possono fare la differenza. The Wreck è anche un gioco sull’accettazione, sul lasciare andare. Junon è ferma da cinque anni, preme in continuazione il tasto repeat. Rivive il momento dell’ incidente automobilistico in un loop senza via d’uscita. II filosofo Timothy Morton, in Humankind, afferma che "chi perpetua il trauma non fa che attraversare la soglia tra un' identificazione totale e positiva con la vita e un mondo in cui governa la pulsione di morte". Junon a un certo punto dice "qualcosa dentro di me si è rotto, sono come il Teflon, tutto mi scivola addosso". È inconsapevole del fatto che sta lottando per qualcosa da cui non può trarre nulla. The Wreck, infine, è un gioco su cosa significhi essere madre. O, meglio ancora, essere una buona madre. Purtroppo non c’è una risposta definitiva a questa domanda. Quello che è sicuro è che le madri non ne escono benissimo. Tre generazioni di donne che si trascinano dietro errori, rancori, rimpianti e rimorsi, come se fossero rincorse da una maledizione di cui non riescono a liberarsi. Junon tenta di dare una risposta dicendo che “la cosa più importante di essere un genitore, ma anche la lezione più difficile da imparare, è fidarsi dei propri figli [...] fargli vivere la propria vita, farli diventare se stessi”.

Junon indossa sempre una maglietta nera con la scritta “Il est mort le soleil”. Nonostante il mio francese scolastico, volevo capire se ci fosse un significato nascosto dietro questa frase. Googlandola, ho scoperto che si tratta di una meravigliosa e malinconica canzone francese degli anni Sessanta, cantata da Nicoletta. Il primo verso fa 

Il est mort

Il est mort, le soleil

Quand tu m'as quittée


Quello che The Wreck ci dice con una potenza inaudita, in un modo che solo i videogiochi sanno fare, è che nonostante tutta la violenza, bisogna saper aspettare un raggio di sole. Magari si è nascosto dietro le nuvole, ma non è ancora morto. 

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