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The Last of Us ci ha dimostrato quanto possa essere irrazionale l’amore

The Last of Us ci ha dimostrato quanto possa essere irrazionale l’amore

Faccio veramente molta fatica a metabolizzare il fatto che The Last of Us sia stato pubblicato ben dieci anni fa. Sarà che proprio quest’anno abbiamo finalmente potuto vedere l’adattamento televisivo, sarà che fra rimasterizzazioni e remake il titolo Naughty Dog ha fatto capolino su tre generazioni di console, sarà che nel frattempo è uscito (nel pieno di una pandemia reale, tra l’altro) un seguito tanto amato quanto discusso, ma sembra veramente ieri quando ho inserito nella mia lucidissima PS3 Fat il disco del gioco, senza sapere cosa mi aspettasse.

Sì, perché The Last of Us è arrivato inaspettatamente nelle mie mani come regalo di compleanno a pochi giorni dal suo lancio sul mercato, quasi all’oscuro di cosa fosse. In quel periodo non stavo seguendo molto ciò che avveniva nel settore videoludico, mi limitavo a sbirciare senza grande interesse le news sui social e, per tutta una serie di motivi che non sto a spiegare, il gaming era in quel periodo l’ultimo dei miei pensieri. Sapevo soltanto che The Last of Us sarebbe stata l’ultima esclusiva per la console Sony prima del grande avvento di PS4. Prima di iniziare a giocarci, lessi le recensioni online delle più note testate (un tripudio di 10/10) e i pareri sui forum di settore, e sembrava che tutti fossero più o meno d’accordo sul fatto che ci trovassimo di fronte non solo a un gioco sopra la media, ma a un vero e proprio titolo seminale, uno di quei giochi che vengono pubblicati una volta in una generazione.

Solo un mese più tardi, dopo circa ventidue ore totali spese sul titolo Naughty Dog, riuscii a realizzare cosa fosse effettivamente The Last of Us.

Come in un film dell’orrore, un virus infetta le persone trasformandole in mostri e il mondo, così, come lo conosciamo, finisce da un giorno all’altro. Concetti come società e civiltà non esistono più, tutto diventa una lotta per la sopravvivenza, un vivere alla giornata e un’esistenza senza futuro. Joel Miller, uomo di mezza età ingrigito e incattivito dalla vita, fa il contrabbandiere per tirare a campare, ma in lui è vivo il ricordo della figlioletta Sarah, uccisa barbaramente dalla milizia il giorno stesso dello scoppio dell’epidemia. Joel da quel momento sembra aver perso qualsiasi sentimento e barlume di umanità, non ha più fiducia nel genere umano e probabilmente gli importa poco anche di continuare a vivere. Ellie Williams, ragazzina adolescente dall’ironia facile e dalla battuta pronta, dev’essere scortata da Boston fino a Salt Lake City, come una merce qualsiasi. I due si trovano costretti a una iniziale reciproca convivenza forzata, che li porterà nel corso di un anno intero a conoscersi, superando l’iniziale diffidenza e arrivando ad instaurare non solo una semplice amicizia, ma un legame molto più profondo e complesso.

Per Joel è facile rivedere in Ellie quella figlia persa in modo tragico e prematuro, così come per Ellie, nata nel bel mezzo della pandemia, è normale vedere in Joel quel padre che non ha mai conosciuto. In Joel scatta quel naturale senso di protezione che ogni padre ha nei confronti della figlia, difendendola non solo da clicker e runner, ma anche e soprattutto dagli uomini, probabilmente i nemici più pericolosi che The Last of Us ha da offrire. Ellie, a sua volta, non ha alcuna intenzione di abbandonare Joel lungo il tragitto, perché quell’ingrigito uomo di mezza età, pur stanco e indebolito da anni di lotta e sofferenze, è l’unico affetto che ha, e quando viene ferito e sembra ormai prossimo alla morte, se ne prende cura a qualunque costo, arrivando ad affrontare pericoli e insidie che mai aveva affrontato.

Ellie e Joel passano un intero anno insieme, suddiviso per stagioni, in cui, vivendo fianco a fianco ogni evento, ogni pericolo, ogni emozione come e più che se fossero stati realmente padre e figlia in un mondo e in una vita cosiddetta normale. Insieme viaggiano lungo le strade di un’America devastata dal virus, con strade piene di vecchie auto arrugginite, negozi abbandonati dalle vetrate rotte e dai muri imbrattati, e case di famiglie ormai distrutte, dove ancora si trovano fotografie, poster, diari di persone probabilmente morte o trasformatesi in mostri. E anche qui, The Last of Us riesce, meglio di una qualsiasi puntata di The Walking Dead, a dimostrare quanto gli uomini, senza leggi e civiltà che le governino, siano, di fatto, degli animali anarchici dotati degli istinti peggiori. In questo senso, l’introduzione di un personaggio come David, un cannibale dotato di pura malvagità, è più esemplificativa di qualsiasi parola. Poi c’è chi umano lo è ancora, come i fratelli Henry e Sam, ma che non sono in grado di resistere alla durezza del nuovo mondo, durezza che li porta verso tragici eventi.

Ma in tutta questa amarezza, The Last of Us ha i suoi bei momenti. Le camminate tranquille di Joel e Ellie in mezzo alla natura, accompagnate dalle eccellenti musiche di Gustavo Santaolalla, in cui Joel racconta ad Ellie la sua vita precedente e lei contraccambia con barzellette imbarazzanti, valgono il prezzo del biglietto fino a quel finale così inaspettato (almeno per me), in cui Joel, persa quella scorza di durezza e di cinismo, sceglie di togliere al mondo l’unica speranza di sconfiggere il virus per salvare l’unico essere umano di cui davvero gli importi.

Uno dei momenti più belli di The Last of Us.

Ci sarebbe, tra le altre cose, anche da ricordare il gioco vero e proprio, e in effetti, devo dire che ho sempre avuto difficoltà ad incasellare l’opera di Neil Druckmann in un genere ben preciso. Non è un survival horror nel senso classico del termine, in quanto la narrazione ha uno spazio preponderante rispetto al resto e i momenti di vera paura sono tutto sommato pochi, non è un action, perché l’approccio principale rimane sempre quello stealth, e, beh, non è uno stealth perché ci sono diverse sezioni action, e puoi comunque scegliere di fare il Rambo e sparare a tutti, anche se finirai morto un buon numero di volte. Se proprio vogliamo definirlo, The Last of Us è un survival adventure, che ti spinge prima di tutto a ponderare ogni tua azione e programmare una strategia, razionando il quanto più possibile le risorse, e, per quanto elementari, i puzzle ambientali ti spingono, anche se non di frequente, a usare anche la materia grigia, per quanto sia tutto abbastanza semplice e intuitivo.

Come sottolineato in precedenza, il gioco di Naughty Dog è ormai universalmente riconosciuto come una pietra miliare, in un anno, il 2013, che ha visto arrivare sugli scaffali dei negozi titoli come Grand Theft Auto V, The Legend of Zelda: A Link Between Worlds e il reboot di Tomb Raider. Ho accompagnato Ellie e Joel nel loro viaggio per tre volte, la prima, appunto, nel 2013, la seconda nel 2020 con l’edizione rimasterizzata per PS4, presa per prepararmi all’avvento del secondo capitolo (e anche per recuperare l’espansione Left Behind) e la terza con la sorprendente serie TV di quest’anno. E so che prima o poi, probabilmente quando il prezzo sarà sceso di parecchio, farò mia anche la nuova versione per PS5, console sulla quale, mi gioco la camicia, arriverà anche il terzo episodio, probabilmente a fine ciclo vitale come successo per gli altri due.

Ma nessuna versione, anche con la grafica e il comparto tecnico migliore al mondo, potrà mai eguagliare quel primo malinconico e difficile viaggio compiuto da Joel ed Ellie dieci anni fa, in cui un non più tanto giovane ex appaltatore dalla barba brizzolata e dallo sguardo sempre incupito ci ha dimostrato quanto l’amore sia una forza potente e irrazionale, e come non sia un caso se il più delle volte vince sulla testa. E, forse, in alcuni casi, è giusto così, perché cosa ci rende più umani dell’agire con il cuore?

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