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Si alza il vento e l'innocenza vola

Si alza il vento e l'innocenza vola

Autocitandomi, ma con moderazione che poi si diventa ciechi, parlando di Porco Rosso mi capitava di menzionare

il nostalgico testamento Si Alza il Vento che è prima di tutto una assoluzione dovuta a tutti gli idealisti che hanno lastricato le strade dell’inferno anche se in realtà volevano solo agguantare una fugace bellezza

E probabilmente dovrei chiudere qui l’articolo.

Nella mia personale classifica, infatti, Si Alza il Vento (Kaze Tachinu) ha conquistato il posto più alto del podio tra le animazioni di Miyazaki, superando la solida Mononoke Hime e l’inquietantemente fiabesco Totoro, a parlarne quindi è facile che io “sbrodoli”.

Non c’è del resto momento nel film in cui non sia evidente che per Hayao Miyazaki sarebbe stato il suo testamento spirituale (salvo poi ripensarci, ma ad una persona del 1941 penso possiamo concedere un po’ di incertezza sul futuro), la sua “non-autobiografia”.

Un ultimo film pensato come omaggio agli ingegneri aereonautici come suo padre (morto esattamente 20 anni prima dell’uscita): coloro che aprirono all’umanità le vie di quel cielo sconfinato che per tutta la sua carriera ha fatto solcare ai suoi personaggi in una maniera unica e vertiginosa.
Coloro che non riesce a condannare, nonostante il fatto che le loro invenzioni vennero usate dai vigliacchi per portare gli assassini definitivamente al di là della portata delle loro vittime, cambiando per sempre la guerra dalla tragedia che faceva soffrire i civili e morire i soldati, nella tragedia che fa soffrire i soldati e morire i civili.

Ecco, se vogliamo toglierci subito il “punto debole” di Si Alza il Vento è che è certamente molto meno politico di quanto si potrebbe pensare: la mostruosità della guerra fa capolino nel finale, il terrore della Polizia Segreta si affaccia nella seconda metà del film e non riesce ad essere un reale motivo di tensione (o, per lo meno, è certamente molto meno spaventoso di come i resoconti storici lo rappresentano), ma alla fine a tenere il banco sono i sentimenti umani, l’amore.

L’amore di Jiro Horikoshi per il sogno del volo libero, condiviso con centinaia di altri rappresentati dal nostro Giovanni Battista Caproni, e quello esclusivo per la bella Nahoko, incontrata in occasione del terrificante terremoto del Kanto del 1923, smarrita e poi ritrovata.

Tutto Si Alza il Vento ruota intorno a questi due amori a cui il protagonista si concede e per cui tutto il resto del mondo narrato assolve due funzioni.
O ne è spettatore, come il gigionesco tedesco in odore di spionaggio Hans Castorp che potrebbe forse essere una citazione del più noto Richard Sorge, la più grande spia russa, di origine tedesca, in Giappone.

Ah, no?

Oppure ne è motore, come il Terremoto del Kanto, a cui Miyazaki dà quella “voce” che non si riesce a definire eppure ricorda momenti precisi: dall’arrivo dei centopiedi corazzati di Nausicaa fino al decomporsi del gigantesco Dio Cervo di Totoro con la progressiva distruzione di tutta la terra intorno. Quel respiro funereo eppure travolgente che Miyazaki rivela essere il ricordo che lui ha, appunto, del suono del primo terremoto di cui ha avuto coscienza.

Entrambi questi amori si compiranno e contemporaneamente rimarranno irrisolti, come tutti i grandi amori.

L’amore per Nahoko si compirà e resterà irrisolto per volontà di quest’ultima, che come è noto non appartiene alla biografia del “vero” Jiro Horikoshi, ma al libro Si Alza il Vento di Tatsuo Hori che narra, appunto, le memorie immaginate di una malata di tubercolosi.
Nahoko, come l’immaginaria anonima eroina di Hori, è malata e non accetta di legare a sè l’uomo che la ama. Sono arrivate molte critiche a Miyazaki per la rappresentazione di Nahoko, soprattutto da parte femminista: per questa donna “sottomessa” che accetta di “mettersi da parte” in quanto malata.
Ogni critica è lecita, ma anche questa volta mi chiedo se i critici hanno davvero visto il film: nella scelta di Nahoko non c’è alcuna remissione.
C’è l’orgoglio di chi non accetta di presentarsi debole di fronte alla persona amata. Di chi vuole essere ricordato all’apice della sua giovinezza e della sua bellezza e non vuole vedere riflessa negli occhi della persona amata la malattia, che non ha niente a che fare con l’amore. Con la vita.

Nahoko è una donna di Miyazaki e, per definizione, non può essere una donna debole e remissiva.

L’amore per il volo, invece, si compirà, con il collaudo riuscito dell’A5M “Claude” (predecessore dell’A6M “Zero”), e resterà irrisolto per il rimpianto (non si può capire quanto suo, del padre di Miyazaki o di Miyazaki stesso) rispetto all’uso fatto di quell’oggetto meraviglioso, leggero, geometricamente impossibile eppure inimitabile, in una delle cose più grevi, buzzurre e prive di grazia che esistano al mondo: la guerra.

Non so neanche se perdere tempo, dopo questa trattazione, a definire quale ennesimo capolavoro esprima la mano decisa di Miyazaki. Ogni dettaglio è curato, ogni scenografia è perfetta e viva, ogni personaggio è un unico, ogni volo è vertiginoso. La colonna sonora accompagna, il doppiaggio originale commuove, l’adattamento italiano…


ecco, no, quello magari facciamo che passare oltre.

Voglio chiudere piuttosto con la frase che vorrei sentire nel momento in cui avessi bisogno di perdono:

Tu devi vivere… ma prima non passeresti da me? C’è del buon vino.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle gioie del volo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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