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Impariamo il latino con Shadowgate, lezione 1: cui prodest? | Racconti dall'ospizio

Impariamo il latino con Shadowgate, lezione 1: cui prodest? | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

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Fa un effetto strano trovarsi a parlare di Shadowgate per PlayStation 4, un remake nato su Kickstarter di una vecchissima avventura punta-e-clicca, uscito su PC nel 2014 e sbarcato infine su console (appunto PS4, ma anche Switch e Xbox One) qualche settimana fa.

Cioè: esiste un pubblico di Shadowgate per PlayStation 4? Qualcuno comprerà davvero questo gioco? Se volete: c’è, tra le persone che giocano solo su console e non hanno/non sfruttano il loro PC, abbastanza gente interessata alla storia del mezzo da gettarsi su un prodotto che dimostra tutti i suoi trentadue anni e che anche in questa versione riveduta e corretta è in circolazione da cinque? Quanti di questi, tra l’altro, sarebbero alla loro prima esperienza con il gioco di ICOM e quanti invece lo comprerebbero per farsi un trip di nostalgia?

Sono domande un po’ oziose e peraltro auguro il meglio a questo remake, ma sono sensibile al fascino degli anacronismi e Shadowgate è un gioco che appartiene fieramente a un’altra epoca, e questo suo vestito nuovo non ne va a toccare le fondamenta strutturali – in altre parole, fatta salva l’aggiunta di quest e oggetti e puzzle per arricchire il pacchetto, è la stessa identica esperienza. Ci sarà magari chi ci rigiocherà per vedere se si ricorda tutto (io, per esempio, mi ricordavo pochino), ma lo scopo di questi remake dovrebbe essere anche quello di far conoscere un pezzo di storia ai più giovani/ai più distratti, e faccio sinceramente fatica a immaginare come possa essere recepito un gioco del genere da tutti quelli per cui, che ne so, Life is Strange è stata la prima esperienza con un punta e clicca.

Perché Shadowgate, l’ho già scritto sopra e lo ribadisco, è un gioco vecchio. Affascinante, cervellotico, enigmatico, grondante di atmosfera, ma vecchio. Uscito lo stesso anno di Maniac Mansion, è un’avventura che già al tempo guardava al passato, alla lezione di Colossal Cave e Zork soprattutto. Più interessata alla sua geografia e alla sua struttura, al senso di trovarsi in un luogo da scoprire in tutti i suoi labirintici meandri, che ai personaggi o alle interazioni umane, basata su puzzle spesso molto classici (leve da tirare nell’ordine corretto, porte segrete da scoprire, oggetti da piazzare su un altare) e su un’esplorazione statica (l’inquadratura è fissa e ci si muove tra una stanza e l’altra senza alcuna transizione) e quindi segmentata e compartimentata. O anche: ci si sposta tra schermate, l’equivalente di scrivere >n in Zork, e ciascuna è ripiena di cosettine da fare e ninnoli con cui interagire; alcuni triccheballacche fanno succedere cose in quella stessa stanza, altri, più spesso, hanno effetto su altri aggeggi in altre stanze, il che significa che, all’atto pratico, gran parte del gameplay di Shadowgate consiste nel muoversi avanti e indietro tra schermate pitoccando pirulini e cercando di capire che cosa abbiano fatto appena succedere.

Questo per quel che riguarda la struttura, familiare anche quando diventa frustrante (capita, in tutti i punta e clicca del mondo). Dove Shadowgate vince è nella sostanza: prende ispirazione da tutto il fantasy più classico che vi possa venire in mente, D&D su tutto, e mischia tutto in un frullatore impazzito, per cui il castello dove si svolge è un’orgia psichedelica di qualsiasi cosa: fantasmi, spiritelli elementali, draghi, ponti sospesi sul vuoto, ponti sospesi sulla lava, tombe, cripte, fogne, tutto quanto tutto insieme. In sostanza, una piccola campagna di D&D scritta da un fattone, oppure, e non è un caso (?) che siano usciti nello stesso anno, la trasposizione videoludica del miglior librogame mai fatto.

Rimangono, anche in questa versione post-chirurgia estetica – a proposito: la nuova veste grafica è cafonissima e molto adatta al gioco –, tutte le rughe di un prodotto di trent’anni fa, con qualche concessione all’impazienza moderna (la più grossa: è possibile eliminare il sistema delle torce che prevede di averne sempre una accesa pena la morte, e giocare quindi con tutta la calma del mondo). Quindi: si gira un sacco a vuoto, alcuni puzzle sono ottusi e costringono a procedere a tentoni finché non si scopre la soluzione, l’interfaccia non è la cosa più intuitiva del mondo. Ci si poteva fare qualcosa in qualche modo? Non senza stravolgere il senso dell’esperienza.

E quindi: l’esperienza interessa ancora a qualcuno?

(oh, ovviamente spero di sbagliarmi e che la risposta sia sì)

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Il trono di spade e al fantasy lercio, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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