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Racconti dall'ospizio #120: Zork, l'inizio di tutto

Racconti dall'ospizio #120: Zork, l'inizio di tutto

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

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Zork è stato il primo videogioco della mia vita.

Di più: è stato il videogioco che mi ha fatto scoprire l'esistenza dei videogiochi e me ne ha fatto intuire le potenzialità. Incidentalmente, è stato anche uno fra gli ultimi videogiochi che mi hanno fatto sentire "fuori": fuori dal giro, fuori dalla moda, fuori da un mondo. Ma come, milioni di persone ne parlano come nel volgere di pochi anni avrebbero parlato di Super Mario e di Myst e io non so neanche di cosa cazzo state parlando? Avevo un numero di anni inferiore a dieci e superiore a tre, e Zork e Colossal Cave Adventure prima di lui, erano "i giochi dei miei genitori", qualcosa che quindi non solo già esisteva ma addirittura mi pre-esisteva. Giocare a Zork era come apprezzare i Led Zeppelin: madonna se spaccano, però, quando questi dischi uscivano, io abitavo ancora il corpo della mia incarnazione precedente, un cammello antropomorfo vissuto in incognito nella Londra vittoriana sotto l'ingannevole nome di "Mr. Anthropocamel".

Voglio dire che non mi ero mai posto troppe domande su quello che i miei genitori facessero la sera chiusi nello studio, davanti allo schermo del computer; ero troppo impegnato a pormi domande su cosa diavolo fosse un computer, e come funzionasse, e perché non si potesse cambiare canale come con la TV ma si potessero far succedere cose pigiando dei tasti. Avevo, lo ripeto, un numero irrisorio di anni: non statemi addosso, era tutto assurdo, figuratevi un computer. Immagino di aver immaginato, al tempo, che quelle serate passate a schiacciare furiosamente tastini e disegnare mappe su fogli di carta millimetrata avessero a che fare con le tasse, o le bollette, o comunque qualcosa di burocratico e adulto. E poi, figuratevi: tutto quello che succedeva su quello schermo lo faceva in inglese, un idioma al quale non mi sarei avvicinato prima di un altro anno o due, e anche lì dalla porta di servizio. Era tutto così incomprensibile e adulto. Non c'erano manco le figure.

Sexy AF.

La storia di Zork è vecchia e nota, e se volete ve la potete leggere direttamente sul sito del MIT, tra le cui mura il gioco venne concepito e sviluppato, o anche nella nostra rubrica Post Mortem, come raccontato da Dave Lebling, uno fra i quattro creatori del gioco. La versione breve è qui: c'è un tizio, Will Crouther, appassionato di speleologia e computer, che nel 1976 crea un giochino, un'avventura testuale interattiva che vuole replicare e romanzare le sue esperienze a zonzo tra le caverne, in particolare le Mammoth Cave in Kentucky. Il giochino è elementare e geniale, e pesca a piene mani dall'esperienza ruolistica creata da Gary Gygax un paio d'anni prima: a schermo compare la descrizione di un ambiente, e sta al giocatore suggerire al suo avatar, sempre con comandi scritti, che cosa fare. Il sistema di Crouther riconosce solo formulazioni semplici: verbo + sostantivo, in pratica. E il gioco si sviluppa su appena un'ottantina di location (con relativa descrizione e possibili interazioni), roba che si completa in mezz'ora se già si sa da che parte girarsi. Eppure, Colossal Cave Adventure (o, se preferite, ADVENT) contiene già germi e suggestioni che negli anni, soprattutto Novanta, diventeranno centrali nell'opera di qualsiasi designer seriamente interessato all'aspetto narrativo dei videogiochi: la struttura query/response, per esempio, verrà poi recuperata e fatta propria da LucasArts, Roberta Williams e compagnia avventurosa. L'abbondanza di segreti e trucchetti misteriosi per far succedere cose darà vita a quella sorta di sottocultura dello scambio di informazioni che negli anni, prima di Internet e soprattutto prima delle piattaforme di streaming video, ha regalato a qualsiasi videogiocatore un rosario memorabile di leggende urbane e incazzature con gli amici (e rari momenti di gratitudine, come quella volta che Paolo dell'altra sezione mi spiegò come finire dietro lo scenario in Super Mario Bros. 3, per arrivare al primo flauto skippatutto). Ci sono dettagli in, Colossal Cave Adventure, che altro non erano se non meme quando ancora il termine non era stato fagocitato dalle immagini di gattini su Internet: xyzzy, il comando per teletrasportarsi in giro, e il maze of twisty little passages.

Doveva essere una storia breve. La accorcio: Dave Lebling e i suoi amici, che al tempo di ADVENT lavorano al MIT e contribuiranno tra le altre cose a creare l'Internets, si innamorano del gioco e decidono di crearne una versione più complessa, sia in termini tecnici, sia narrativi e di ambientazione; in più, essendo dei maledetti nerd come si deve, I NERD DI UNA VOLTA, per capirci, ci aggiungono una bella passata di fantasy iperclassica, con spade elfiche, troll e labirinti sotterranei – arrivano addirittura a chiamare il loro gioco Dungeon, prima della telefonata degli amici incazzati di Gygax che li convincono a cambiare nome, minacciandoli di levargli anche la pelle di dosso per violazione del copyright (...). Il gioco finisce quindi per chiamarsi Zork, un termine nonsense che a quanto pare la gente del MIT usava per riferirsi a qualsiasi programma non avesse una forma definitiva o funzionasse a cazzo. Rispetto al predecessore, fa un passo avanti fondamentale: accetta comandi complessi, per cui non più "kill orc" ma "kill orc with sword" – ancora una volta, la versione solo testuale di "usa pollo di gomma con carrucola".

A oggi, non so ancora dire se i miei giocassero ad ADVENT, a Zork o a tutti e due (sospetto tutti e due), resta che nella mia testa le due opere sono inscindibili, essenziali per la mia formazione e, porca puttana adesso lo scrivo davvero, persino mitopoietiche.

Vorrei fare tutto un rant collaterale sul fatto che negli anni Zork è stato rifatto infinite volte e qualcuno ha persino pensato di aggiungerci delle immagini, sacrilegio e mercimonio di un inestimabile pezzo d'arte! Solo che poi no, la verità è che a me piacciono tantissimo anche queste versioni qui, per quanto posticce.

Non è curioso che un'avventura interattiva fatta solo di parole (bianche su sfondo nero, tra l'altro) sia nella mia testa l'embrione di un'intera forma d'arte che si basa principalmente su immagini e sonoro, che come i film e più dei film tocca i suoi apici quando punta sullo show don't tell di lubbockiana memoria? Zork non ha letteralmente nulla da mostrare, è un librogame con un maggior numero di gradi di libertà, e senza le illustrazioni. Credo, ma non c'ero, che fosse difficile se non impossibile, per un videogiocatore dell'epoca, immaginare il filo rosso che congiunge Zork a, boh, Skyrim, non tanto per limitazioni tecniche (ci voleva poco, anche negli anni Settanta, a pensare "un giorno riusciremo a fare i film che però lo spettatore può controllare direttamente") quanto per una questione di intenzioni: la qualità di Zork è intrinsecamente letteraria come lo era quella di D&D che lo ispirò. Diventa quindi, credo, tutto un discorso di libertà e di senso della possibilità.

Cosa manca a Zork che un videogioco moderno può vantarsi di avere? Se in The Legend of Zelda: Breath of the Wild arrivo qui

, cosa posso fare? Avvicinarmi all'ingresso e scoprire se la porta è aperta, provare a entrare da una finestra, guardare sotto lo zerbino per vedere se qualcuno ci ha nascosto una chiave, sfondare la porta a martellate, anche. Come faccio a farlo? Mi muovo verso est (o a ovest, o a nord, o a sud, non me lo ricordo, non rompete).

Cosa posso fare, in Zork, di fronte a questo?

Posso dire al computer di farmi muovere verso la porta d'ingresso per scoprire se sia aperta, posso provare ad aprire la finestra, a guardare sotto lo zerbino per vedere se...

Avete presente quelle sequenze presenti in un buon 75% degli RPG e dei giochi d'avventura degli ultimi decenni nelle quali è impossibile sopravvivere se non si possiede il magico MacGuffin di turno? Provate a scendere nel GEU di Zork senza una torcia e venitemi a raccontare come finisce. 

It is pitch black. You are likely to be eaten by a

Sapete come si batte l'orco che sta nei sotterranei di Zork? Con una spada magica, e spammandolo di attacchi.

È come se Zork fosse un pezzo di letteratura interattiva che già nel 1977 raccontava quello che sarebbero diventati i videogiochi (almeno alcuni videogiochi) negli anni a venire, e non teorizzando o imbastendo discorsi metatestuali da filosofo della mia ceppa di minchia. Piuttosto, era un trailer in forma scritta di quello che avrebbe cominciato a popolare i nostri schermi nel giro di poco tempo.

Dite che sono ragionamenti estremamente complessi e troppo adulti perché potessero davvero animare la mia mente di seienne? Grazie del complimento, ma dissento. Voglio dire, non sono abbastanza vecchio da potermi vantare di essere nato come videogiocatore sulle avventure testuali: già per il me bambino erano una sorta di finestra sul passato, un'operazione di archeologia, per quanto a breve termine. Scoprii Zork più o meno contemporaneamente a Tetris e Prince of Persia, quindi non sono mai vissuto nell'illusione che i videogiochi sarebbero rimasti confinati alla parola scritta per tutta la loro breve esistenza. C'era però una differenza fondamentale ed evidente, tra Zork e Prince of Persia, che ha a che fare con la succitata libertà e molto meno con il vivere un videogioco come uno sport (e Prince of Persia era uno sport, atmosfera affascinante o meno).

E poi era anche, l'avventura di Lebling e soci, un gioco, che in quanto tale riconosceva le sue radici di attività sociale: l'intento dei programmatori era quello di simulare un botta-e-risposta tra un dungeon master e un giocatore, tanto che Zork è ricco di humor da nerd anni Settanta, quindi incredibilmente goffo e ingenuo sotto la patina intellettual-meta-, e sostanzialmente identico a una buona metà di quello che fa ridere in Futurama. E che serviva, credo, a dare calore e dinamicità al gioco.

Zork Nemesis, o "il capitolo che non fa ridere".

Non so più che giro abbia preso questo pezzo, quindi chiudo con considerazioni sparse. Uscirono un numero imprecisato di sequel di Zork (a memoria, almeno altri due testuali e una serie di spin-off, più svariati altri capitoli nel corso di un revival del brand verso la fine degli anni Novanta), e lo stesso primo episodio è rigiocabile in mille modi diversi, come app per smartfono, scaricandolo da qui o da là, giocandoci online. Ricordo in particolare la mia esperienza con Zork Nemesis, undicesimo, dice Wiki, gioco della saga, un'avventura grafica alla Myst della quale non saprei dirvi nulla se non che a un certo punto portava il giocatore in un'ambientazione a due passi dalla Flood Control Dam #3, un nome impossibile da dimenticare se mai giocherete a Zork per scoprire dove sia cominciato tutto. E se non lo farete, perché dovrei spiegarvelo?

Ah sì, Ready Player One! Nel romanzo, a un certo punto, devono completare una partita a Zork per, uh, andare avanti. Chissà se anche nel film.

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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