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Non aprite quella porta: oltre alla canottiera bianca c’è di più

Non aprite quella porta: oltre alla canottiera bianca c’è di più

Siamo ai primi di dicembre di un 2003 che sta quasi per terminare. È uno di quei sabato sera freddolosi in cui ci si ritrova con il solito gruppo non sapendo né dove andare né cosa fare. Si decide di andare al cinema, ma a vedere cosa? Optiamo, come sempre, per il film del momento, quello di cui si parla un po' ovunque e che bene o male può accontentare un po' tutti.

Non aprite quella porta fu, seppur per breve tempo, un piccolo caso cinematografico, qui in Italia. Il film di Marcus Nispel rimase in testa alle classifiche dei film più visti per diverse settimane, successivamente soppiantato da cinepanettoni e commediole varie tipiche del periodo festivo. In particolare, ricordo che MTV, che allora godeva di ottima salute, dedicò almeno un paio di speciali legati al film, con interviste al cast e al regista, trasmettendo anche durante i blocchi pubblicitari uno spot promozionale contenente una sorta di “live reaction” delle persone presenti in sala durante la proiezione, che si coprivano gli occhi e urlavano di paura, con quegli slogan comparativi che ho sempre trovato leggermente ridicoli tipo “Il film più inquietante dopo l’Esorcista”.

Pur essendo abbastanza lontano dai miei gusti, Non aprite quella porta non mi era per niente dispiaciuto: nonostante fosse, fondamentalmente, un horror con una forte impronta slasher abbastanza nella media, aveva quell’atmosfera sudicia, sporca e malata che lo rendeva interessante, elemento poi ripreso in altre pellicole di genere dei primi anni 2000 come il primo Saw o La Maschera di Cera, fino ad arrivare a quell’oscenità di Hostel. Anche la trama di fondo era né più né meno quella già vista in altre pellicole: un gruppo di giovani malcapitati finisce suo malgrado nel mirino del pazzo maniaco di turno, inizia il body count e del gruppo ne resta solo una, che si trasforma in final girl una volta che ha capito che continuare a scappare è inutile e che dovrà fronteggiare la minaccia per poter uscire da quella situazione. In questo caso il ruolo della final girl venne affidato a Jessica Biel, che dopo il successo del film avrebbe recitato in almeno tre film all’anno per i successivi sei anni, scrollandosi di dosso l’aria da santarellina ottenuta in Settimo Cielo (e se non conoscete la serie o non ne avete mai vista una puntata nemmeno per caso, vi invidio profondamente, in quanto si tratta di uno dei peggiori prodotti televisivi mai realizzati) per diventare poi una sorta di icona sexy impegnata fondamentalmente in commedie romantiche.

Del film me ne dimenticai quasi subito. Poi, un giorno, durante il mio quotidiano viaggio in treno, si sedettero di fianco a me due tizi che avevano visto il film un paio di giorni prima e iniziarono a parlarne. Uno di loro sottolineò quanto fosse rimasto deluso dalla pellicola, in quanto questo remake era fondamentalmente privo del sottotesto politico e sociale dell’originale del 1974, avendo come unico elemento degno di nota la presenza della protagonista in canottiera bianca e jeans attillati.

Ero all’oscuro del fatto che Non aprite quella porta fosse un remake, o più probabilmente era per me un’informazione talmente irrilevante da non essere immagazzinata nella mia memoria da pesce rosso. Comunque, il commento di quel tizio sul treno mi aveva incuriosito. È sempre stata mia abitudine, una volta che un film mi era piaciuto, verificare quanto fosse differente dall’opera originale, che fosse un libro o un altro film poco importava. Volevo quindi recuperare il film del 1974, ma come fare? Era il 2003, Internet era ancora abbastanza acerbo, quindi l’unica era sperare che il film fosse almeno disponibile per il noleggio.

Riporto qui di seguito una mia surreale conversazione con un commesso dell’allora fiorente catena Blockbuster.

Io: “Ciao, è disponibile Non aprite quella porta del 1974?”

Commesso: “Aspetta che controllo…eh no, qui mi dice che uscirà in estate. Ma guarda che sicuramente è ancora al cinema, prova a controllare”.

Io (probabilmente strabuzzando gli occhi): “Ehm, no, veramente io cercavo quello del 1974”.

Commesso: “Ah, beh, no, quello non credo sia uscito nemmeno in VHS. Però se vuoi prenotare il nuovo film, per i primi dieci c’è in regalo il poster”.

Io: “Ehm no, grazie”

Rinunciai quindi a vedere la pellicola originale fino a quando, un paio di anni fa, durante il lockdown, il film non è comparso su una delle tante piattaforme streaming.

Non aprite quella porta, quello del 1974, è il film più terrorizzante, angosciante, disgustoso e inquietante che abbia mai visto.

Nonostante le scene splatter e il sangue non manchino, tutto il film si regge su una tensione quasi insopportabile. Laddove l’horror moderno cerca di spaventare e inorridire solo mostrando squartamenti e omicidi, il film di Tobe Hooper necessita di nervi più che saldi per arrivare alla fine. Prima ancora che entri in scena Leatherface con la sua celebre motosega, ci sono determinate inquadrature e oggetti che fanno presagire l’inizio di un viaggio infernale: una ragnatela piena di ragni neri, ossa umane messe assieme in maniera strana, denti, piume, pelle umana e tanto altro su cui la telecamera indugia in maniera insopportabilmente fastidiosa. Le urla dei componenti del gruppo sono talmente strazianti da sembrare reali e la scena della cena, fulcro di tutto il film, è qualcosa di talmente aberrante che guardandola si prova quasi lo stesso senso di impotenza provato dalla protagonista Sally Hardesty. Si desidera solo che quell’incubo maledetto finisca, in un modo o nell’altro, e quel primo piano ripetuto sull’occhio di Sally, in stato di shock e incredula per quanto le sta capitando, è talmente intenso e spaventoso che riesce a trasmetterci la sua angoscia, quasi come se la stessimo vivendo noi al suo posto. E anche quando Sally riesce miracolosamente a scappare, correndo rallentata dal ginocchio malconcio, l’oppressione è palpabile come se fosse reale: la protagonista corre in una landa desolata, in quel residuo rurale fatto solo di una baracca fatiscente nel mezzo del nulla, con i suoi aguzzini che le stanno con il fiato sul collo, quasi come se l’imminente cattura fosse una sorta di liberazione, con quella fuga incredibile sul retro di un  pick up che passava di lì per caso, con quella risata isterica che sembra liberatoria ma è in realtà segno di un trauma forte e reale, una di quelle cose che colpiscono nel profondo in modo così duro da lasciare una cicatrice che non se ne andrà mai via.

Quella prima visione mi aveva talmente turbato che non avevo colto i famosi sottotesti sociali e politici di cui parlava il tizio del treno, e dopo essermi ripreso, ho recuperato una vecchia intervista di Hooper in cui diceva che la fonte d’ispirazione per il film fu il cambiamento a cui andò incontro l’America negli anni Settanta a causa della guerra in Vietnam, dello scandalo Watergate e di una narrazione profondamente distorta da parte della politica di ciò che il popolo stava vivendo in quegli anni, anche per colpa di un’informazione sempre meno attendibile da parte degli organi di stampa. Anche il cannibalismo dei Sawyer è una conseguenza della disoccupazione e dell’automazione di molteplici attività lavorative che li ha “costretti” a trovare una via alternativa per sopravvivere. Era l’America del 1974, ma sembra il mondo del 2022, cannibalismo a parte.

Non aprite quella porta si è guadagnato – giustamente, aggiungo – l’etichetta di film maledetto, vietato in numerosi paesi e pesantemente censurato in altri, dando poi seguito a una serie infinita di seguiti, prequel, remake di qualità altalenante, e nessuna di queste pellicole ha mai raggiunto i livelli dell’originale, consentendo comunque a Leatherface di diventare un’icona horror presente anche in diversi videogiochi, fra cui un titolo per Atari 2600 e la presenza nel roster dei lottatori di Mortal Kombat X insieme al “collega” Jason Voorhes. Senza dimenticare poi l’ispirazione che la pellicola ha avuto nella realizzazione di Resident Evil 7.

Ho riguardato – con molta fatica, ammetto – il film poco prima di scrivere questo pezzo, e devo dire che la scena più spaventosa, dopo quella della cena, è quella in cui il capofamiglia Drayton Sawyer, dopo aver tramortito Sally e averla caricata sul suo furgone, torna nella sua stazione di servizio per spegnere le luci, a causa dei costi dell’elettricità, divenuti insostenibili. Una cosa che, visti i tempi in cui stiamo vivendo, fa anche più paura del cannibalismo.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli anni Settanta, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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