Outcazzari

Nier: Automata è... uhh, cosa stavo dicendo?

Nier: Automata è... uhh, cosa stavo dicendo?

Mi sono distratto…

D’accordo, lo ammetto: io a Nier: Automata ho giocato perché l’idea di stare appiccicato al posteriore di una bellissima albina, mentre mulinava katane, zanbato, lance e pesantissime asce steampunk vestita da pornovedova, mi esaltava a pacchi. Ora denunciatemi!

Di Nier come franchise, non sapevo assolutamente nulla, come del Sig. Yoko Taro e delle sue follie. Del resto, possiamo penso essere tutti d’accordo che i suoi titoli in occidente siano passati abbastanza sotto traccia (per usare un eufemismo) e la sua fama sia frutto di rivalutazione postuma a suon di passa-parola tra appassionati.

Quindi, a Nier: Automata ho giocato da completo ignorante ed è stato per me un’esperienza esaltante e frustrante al tempo stesso.

Fosse stato solo questo: mostri epici, scontri, colonna sonora e silenzio.

Il capitolo “Esaltante” lo liquidiamo in poche righe, principalmente poiché è autoevidente: il gameplay è in mano ai tizi di PlatinumGames, a cui dobbiamo Bayonetta (altro motivo per cui Nier: Automata l’ho preso a scatola chiusa), che arrivano a piangere sangue, pur di estrarre il mix di azione brutale e puro swag dai “binari” di Bayonetta e sbatterlo in ampie e ariose arene, estremamente suggestive (qualcuno ha parlato di open world ma… insomma… magari no); il character design è saldamente nelle mani di un veterano di Square/Enix; la colonna sonora orchestrale, lirica e magniloquente come una tragedia barocca pompata a synthoni, è diretta dal Keiichi Okabe di quello studio Monaca che non riesce a sbagliare una colonna sonora manco volendo (ve ne ho già parlato per Bakemonogatari).

Insomma: “capolavoro” e “annunciato” sono le due parole che vengono in mente.

… e A2 (ovviamente il doppiaggio giapponese spakka!).

Il capitolo “Frustrazione”, invece, richiede un pelino più di tempo, anche solo per evitarmi di venire bruciato al rogo (in realtà capiterà lo stesso, ma, OK… ).

Innanzitutto, c’è una frustrazioncina da poco in cui si inciampa se si inizia la partita ad un livello di difficoltà “adeguato”. Come tutti i giochi “moderni”, Nier: Automata è un gioco facile e resta tale anche a livelli di difficoltà impegnativi. Basta capire le due-tre tattiche di crescita più redditizie, trovare le armi adatte, il POD lanciamissili e quasi ogni battaglia si riduce a un inferno di mazzate, schivate ed esplosioni da cui si esce borbottando “Adoro l’odore del Napalm la mattina… ” (e rimirando il sedere di 2B).

Questo, però, non vale per la prima missione, quella che avrebbe dovuto essere la “missione tutorial”: una lunga, complessa, run fino al primo Boss SENZA UN SAVE POINT. Quattordici minuti di gioco che in modalità normale vengono fatti in “God Mode” ma, alla modalità appena appena più difficile ci si può trovare a ripetere tre, quattro, CINQUE volte, a causa di nemici che improvvisamente dimezzano la barra di energia ad ogni colpo fortunato.

Senza. Un. Save. Point.

Poi c’è la frustrazione massiccia di cui probabilmente dovrei ritenermi unico colpevole, non sapendo nulla di Nier, Drakengard e della Profonda Visione Filosofica del Maestro Yoko Taro, sceneggiatore di questo franchise.

Lo dico? Non lo dico?

Lo dico: a me tutti i personaggi di Nier: Automata, A2 esclusa, sembrano dei totali deficienti.

Quello che fanno, quello che dicono, quello che pensano per metà del tempo non ha senso e per l’altra metà contraddice quello che avevano detto, fatto, pensato qualche ora di gioco prima.

Senza mostrare alcun retropensiero, alcuna pausa di riflessione, alcun dubbio che vada un po’ più in profondità dell’averlo semplicemente enunciato a voce, si muovono tra rivelazioni telefonate (gli alieni sono morti, gli umani sono morti, Dio è morto e neanch’io mi sento troppo bene), banali ed inconsistenti (il villaggio delle robomacchine assassine pacifiste e fricchettone… vabbeh… ) o semplicemente MACCOSA (l’apocalisse robot-zombie… ripetete con me: “apocalisse con robot zombie”, APOCALISSE ROBOT-ZOMBIE. Per quanto lo ripeta, non smette di sembrarmi un’idea stupida).

Questo fa sì che le loro personalità non si evolvano e non interessino: 2B è una macchina da guerra tsundere, 9s è un boy-scout entusiasta vestito come un balilla, e tali restano fino ad un secondo prima della fine. Quando la tragedia li investe, non ho sviluppato sufficiente empatia da rimanerci davvero male. Restano appena impressi nella memoria il sorriso sereno ed il sussulto di dolore con cui 2B affronta l’eutanasia.

A malapena si salva A2 ma semplicemente perché, come dissi discutendone anni fa, è la versione in abiti “rape and revenge” del veterano di mille guerre che ha perso la sua occasione di crepare sul campo di battaglia: morta dentro e alla ricerca disperata di quel proiettile che non arriva. Il suo “tipo” drammatico è affascinante, ma non stiamo parlando di “personalità”.

… non c’è abbastanza A2 al mondo!

Quindi, no, non me la assumo la colpa di “non aver giocato ai capitoli precedenti”.

Non mi disturba dover solo supporre chi siano Devola e Popola o Emil, non ho grossi problemi ad accettare gli androidi come mera e sacrificabile tappa intermedia di una evoluzione pianificata. Mi disturba dover passare sopra al fatto che l’autore mi proponga “azione” e “reazione” come dati di fatto, quando tra le due non c’è il minimo legame razionale.

Mi disturba accettare un’intelligenza artificiale più stupida di quella di Wargames (la quale almeno realizzava di non poter vincere contro sé stessa), che per sviluppare un superiore livello di coscienza, fa combattere un’elite di pornovedove e balilla in una guerra senza nemici reali, grazie al supporto di altri androidi cenciosi che costituiscono “la resistenza” (ma resistenza a cosa? COSA?!). Al confronto, Mr. Bison, che voleva conquistare il mondo grazie alla forza dei Pugni nelle Mani, raccogliendo il potere dei picchiatori più truzzi, sembra improvvisamente Machiavelli.

Mi disturba la carrellata di “tipi” che mi viene propinata: dalla milfosissima comandante, che un momento manda a morte sicura 2B e 9S e il momento successivo sussurra commossa “non morite”, fino alle due ufficiali di collegamento, che sono l’una una timida lesbica e l’altra una tsundere con un complesso materno che fa provincia… questo mentre io avrei dovuto convincermi che gli scatti emotivi di 2B e la personalità espansiva di 9S sono “errori di programma”, perché ogni tot qualcuno mi ricorda che “gli androidi non devono provare emozioni” e riesce a dirlo senza ridere.

Concludo, ché vedo che alcune delle torce sono ormai quasi spente e vorrei finire il mio martirio prima di cena. La causa della mia frustrazione si riduce ad una frase: “scrittura sciatta”.

Ed è un peccato, perché, come mi successe con Gravity Rush, ho giocato a un gioco divertentissimo la cui trama e sceneggiatura mi hanno solo irritato e lasciato con un gran senso di “persino io avrei fatto meglio”.

Che è un po’ il grado zero dell’occasione sprecata.

Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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