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Ti ricordi, P, che giocavamo a Moon Cresta nel tinello? | Racconti dall'ospizio

Ti ricordi, P, che giocavamo a Moon Cresta nel tinello? | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Arriva un punto della vita in cui capisci ciò che vuoi. In alcuni rarissimi casi, si tratta di una consapevolezza olistica e totalizzante, in cui capisci ciò che vuoi in senso lato - tipo senso della vita, insomma. Di solito in quei casi diventi un profetone tipo Grandi Religioni Monoteistiche, o almeno un profetuncolo che riesce comunque a fare un botto de soldi. 

Nella maggior parte dei casi, invece, la consapevolezza di ciò che si vuole è ristretta ad ambiti particolarmente circoscritti. Io, per esempio, capii qual era il genere di videogiochi che mi piacevano maggiormente nello spazio di un tinello. E nemmeno mio. Era il tinello dei genitori di P.

Incontrai P a metà 1985, presso un campo scout in cui diversi gruppi cittadini si confrontavano in materia di nodi, costruzioni in legno, tecniche di realizzazione di ferma-foulard e videogiochi. Le prime tre erano tematiche per gente con lo scoutismo nel cuore, la quarta per tutti i senza casta finiti lì un po’ per sbaglio - e curiosamente accomunati dall’essere inscimmiati videoludici di primo pelo.

Game&Watch nascosti nello zaino Invicta, copie di Videogiochi dell’editoriale Jackson, col rischio della confisca, ma anche chi se ne infischia, perché tanto è tutto nella testa: nomi, personaggi, astronavi, livelli, punteggio. E giù a parlare, a fantasticare, semplicemente a godere di un concetto iperuranico di iperspazio, di invasore, di I, Robot.

P, che non si chiama P ma poi capirete che è meglio così, vantava una conoscenza in materia videoludica decisamente spettacolare. In quel campo scout, ovvero la prima volta che ci parlai, mi raccontò una serie di robe talmente incredibili che lo presi per un ballista, tipo che Sala Giochi in realtà si chiamava Lazy Jones e che non era un gioco italiano: quello che si comprava in edicola era una versione piratata dell’originale inglese. Seee, bboooooom. “E tu come lo sai?” “A parte che leggo Commodore User, lo so perché mio papà è un pirata”. Seeee, doppio bbooooooooom. “Se non ci credi sabato prossimo invece di andare a scout vieni a casa mia”.

Curiosity killed the cat.

Nel 1985 andare a casa di chiunque a undici anni era normale nella misura in cui c’erano minime garanzie (“Mamma guarda che è scout”, “ah, allora OK”). Certo, la casa era parecchio popolare per quanto ne potevo capire, ma l’appartamento faceva di tutto per gridare “decoro”. C’era stato un lavoro di pulizia importante, lo leggevo nella fatica con cui la mamma di P mi venne ad aprire. Poi scoprii che era “malata di nervi”, come si usava ancora dire con vago piglio fine Ottocento. Ma per il momento non reagii alla fissità del suo sguardo, perfettamente imputabile alla fatica Spic e Span di cui profumava il tinello. 

Understand the concept of “tinello”. Un piccolo mondo antico, pieno di buone cose di pessimo gusto - era chiaro perfino al me undicenne - ma queste considerazioni medioborghesi si sciolsero come neve al sole alla vista di una pila di Commodore User e altre riviste INGLESI dedicate al Commodore 64. E, poco più dietro, in un angolo, COLONNE di cassettine del C64. Colonne. Scaffali. E poi armadi. Erano ovunque, cfr. il pane  di Fantozzi o le PCB arcade a casa mia. Gesù Cristo. 

Arrivò il padre di P, scusandosi perché aveva fatto tardi al lavoro. Poi scoprii che non aveva un lavoro, il padre di P, e che passava i pomeriggi a giocare alle corse di cavalli in viale XX Settembre. E che se qualche entrata l’aveva, era proprio derivante dalla vendita di software pirata. Pertanto, quello che mi aveva detto P e che io avevo preso sottogamba era in verità veramente verissimo: “Se vieni a casa mia mio papà può registrarti su una cassetta tutti i giochi che vuoi, li ha tutti, cinquemila lire per una cassetta da 60 minuti”.

Realizzare che era tutto vero fu uno shock fortissimo, mi sentivo lo stomaco come quando andavo dal dentista, forse anche perché vedevo il miraggio di ritrovarmi tra le mani il Graal di tutte le cassettine, creato à la carte sulla base dei miei gusti - ma, al tempo stesso, perché sapevo di non avere soldi con me, “tanto figurati se”. Ecco.

La mia strategia era semplice: mi sarei fatto fare la cassettina e poi, quando mio padre sarebbe venuto a prendermi, avrei con candore spiegato che avevo bisogno di cinquemila lire per saldare un debito. Strategia forse un po’ tagliata con l’accetta, ma di nuovo: l’all you can eat del C64 pirata poneva qualsiasi cosa in secondo piano.

Quindi cominciai a sparare richieste. La cosa bella è che tutti i giochi erano stati indicizzati con cura, quindi se io dicevo “Mr. Do!”, P e suo padre sapevano dirmi non tanto se ce l’avevano, ma se esistesse. Perché se esisteva era ovvio che ce l’avessero. E se non esisteva quel determinato titolo per 64, P, con la sua cultura enciclopedica, era spesso in grado di dirmi se c’era qualche clone del gioco in questione. “Xevious è mai stato fatto?” chiesi con la bava alla bocca. “No, ma c’è Flak! che è simile”. “Mr. Do’s Wild Ride?” “No, ma c’è Kong Strikes Back! che…” “E Tutankham? Lady Bug?” “No, ma Lady Tut è un gioco che li mescola insieme” “I PUFFI DEL COLECOVISION?” “Esiste, ma non è fatto da Coleco, è fatto mezzo in BASIC da un tizio tedesco” (con, inspiegabilmente, Billie Jean in sottofondo, la cosa migliore del clone).

Insomma, tra una richiesta (im)possibile e un’altra si fece presto a riempire i due lati da trenta minuti. Il processo era particolarmente goloso perché, grazie a un fantasmagorico aggeggio che sdoppiava l’entrata del registratore Datasette, dei due dispositivi connessi uno caricava il gioco da un nastro, mentre l’altro lo registrava sulla mia cassettina in fieri. 

“C’è spazio ancora per un solo gioco” disse il padre di P. Non avevo esperienze precedenti, ma per essere un pirata mi sembrava una persona assolutamente per bene e un buon genitore: era rimasto tutto il pomeriggio con noi e lo aveva fatto con sincero divertimento, e senza sbaraitare AHRRRRRRR! nemmeno una volta.

Un solo gioco. 

Con mio padre che sarebbe arrivato a minuti. 

E fu lì che pensai: ok, ma che tipo di gioco mi piace? 

E da qualche profonda feritoia della mia pur giovane mente emerse il responso: “Moon Cresta”.

“Ah! Moon Cresta, certo. Esiste, esiste eccome, ed è un’ottima conversione” disse P.

Moon Cresta. Che colpaccio! Lo giocavo da piccolo - solo un paio di anni prima, in effetti - alla pizzeria “Le tre panoce” di Gretta, il mio rione. Era stato uno dei primi giochi in cui mi ero incaponito a voler vedere tutti i (pochi) livelli prima che la sequenza ripartisse da capo, costasse quel che costasse, ovvero svariate monete da cento lire mentre si aspettava la pizza. Un gioco feroce per difficoltà, che premiava la capacità di non perdere vite con la possibilità di agganciare i tre moduli - di fatto le tre “vite” - se si riusciva a raggiungere i bonus stage dove, operando con cautela, era infatti possibile operare l’agganciamento. Che sì, comportava un aumento della potenza di fuoco, ma che aumentava il rischio di perdere in un sol colpo tutta la propria scorta. Galaga anyone? Però a vedere le tre astronavi agganciate, be’, era una  libidine. Power fantasy. Getter robot. Anime. Sincronicità tra cartoni giapponesi e videogame giapponesi. Un effetto volutissimo dal designer Shigeki Fujiwara, vera colonna portante della Nichibutsu dei primi anni, che avrebbe poi portato a Terra Cresta, UFO Robo Dangar e altre delizie irrinunciabili. Fujiwara era un fetentone mosso da spietate logiche risk-reward, ma cribbio se ti sapeva agganciare allo schermo. Ignoravo il suo nome, chiaro, ma parimenti ero stato matto per Crazy Climber, sempre suo, sempre crudele, con una simile capacità di farti insistere per vedere “un po’ più in là”. Ma se in Crazy Climber la questione era tutta incentrata sul padroneggiare il bizantino sistema di controllo a doppio joystick, in Moon Cresta la questione era molto più terra a terra (Cresta, ba dum tss): movimenti base alla Space Invaders, e se sbagliavi era tutta colpa dei tuoi riflessi, della tua carenza di concentrazione. E sì, anche della tua incapacità di gestire i tre diversi moduli, con larghezza di sparo differenti e firing rate sfasati. 

Non si dovrebbe parlare delle caratteristiche di un gioco al passato - Moon Cresta esiste, esisterà sempre così come le sue regole. Ma nel scriverne ora mi viene spontaneo parlarne come se non esistesse più, forse perché io bambino che gioco a Moon Cresta non esisto più, come una nave (spaziale) che ha preso il largo in un passato che sa di futuro, perché il passato delle nostre esistenze era molto più pieno di futuro di quanto non lo sia il nostro presente.

E la nave che va si porta via P, i genitori di P, il tinello, le cassettine ormai smagnetizzate, perdute, vendute, intraviste ogni tanto nel burrascoso mare dei ricordi, inavvicinabili se non con maldestre parole votate a dargli forma nella foschia galattica per un ultimo saluto.

CLACK!

Nel momento in cui Moon Cresta apparve sullo schermo del televisore, i tasti del Datasette dove si stava registrando l’ultimo gioco della cassettina scattarono. Era finito il nastro. Panico. “Ma avrà registrato fino alla fine?”Suonò il campanello. Era mio padre che veniva a prendermi. Il padre di P mi porse la cassettina. “Non preoccuparti dei soldi, questa la offro io, è stato un bel pomeriggio” mi disse accompagnandomi alla porta, mentre P, giustamente invasato, restava nel tinello a sparacchiare con Moon Cresta. E aggiunse “Mio figlio è sempre così solo, gli hai fatto compagnia ed era proprio contento. Torna a trovarci”. Era un bravo papà prima che un pirata informatico, decisamente. 

Tornai a casa e provai subito Moon Cresta per vedere se la registrazione sulla mia cassettina si era interrotta troppo presto. Non si era interrotta troppo presto: miracolosamente, i dati erano tutti lì, nonostante a caricamento ultimato si sentisse sempre il CLACK del nastro tutto riavvolto. 

Mi diede fastidio quando anni dopo seppi la backstory da conoscenti comuni e pettegoli: la madre depressa, i debiti di gioco, poi il vuoto. Non sono cose che pertengono ai miracoli, le backstory. Sono rumori di fondo, e sta a noi preservare l’epica dei nostri ricordi dando alle cose la giusta prospettiva. 

Moon Cresta. Questo è il tipo di gioco che mi piace, ora come allora. Così come mi piace ricordare l’epica di certi pomeriggi tra amici, in configurazioni inusitate, col Commodore a fare da filo conduttore per incontri, momenti, sogni, giorni. E non so cosa ricorderanno tra quarant’anni i bambini di oggi, ma sarà di sicuro altrettanto epico, perché è nella natura umana cantare le proprie storie migliori, per darsi forza nel nostro (in)significante viaggio attraverso lo spazio infinito.

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