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eXistenZ #34 – C'era una volta Atari

eXistenZ #34 – C'era una volta Atari

eXistenZ è la nostra rubrica in cui si chiacchiera del rapporto fra videogiochi e cinema, infilandoci in mezzo anche po' qualsiasi altra cosa ci passi per la testa e sia anche solo vagamente attinente. Si chiama eXistenZ perché quell'altro film di Cronenberg ce lo siamo bruciato e perché a dirla tutta è questo quello che parla proprio di videogiochi.

L'Atari mitologica, quella degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta a cui vogliamo tanto bene per mille motivi, nonostante le sue svariate contraddizioni, tali da spingere molti grandi talenti a fuggire altrove, era un'azienda lontana anni luce da quel gruppo di gente un po' sfigata che oggi fa sbroccare Jeff Minter su Twitter rompendogli le scatole per TxK. Lì nacquero miti e leggende, vennero creati decine di capolavori seminali la cui influenza è viva e pulsante ancora oggi, si espressero fior di game designer, programmatori e sviluppatori, dando vita a pietre miliari senza tempo. Ed era anche un disastro allucinante.

Anche la copertina c'ha uno stile tutto casa e cantina.

Anche la copertina c'ha uno stile tutto casa e cantina.

Era un azienda in cui, come racconta il programmatore Rob Zdybel, ogni venerdì il vicepresident of engineering porgeva a qualcuno chiavi e carta di credito aziendale con la missione di andare ad acquistare alcool e bibite assortite per la festa del pomeriggio. Era un luogo in cui ogni mattina i dirigenti arrivavano in ufficio e controllavano dietro ogni angolo per accertarsi che non ci fosse un cadavere. Era un contesto in cui quegli stessi capi impararono molto in fretta che non era il caso di accogliere investitori per riunioni pomeridiane, dato che ogni singolo giorno, dopo pranzo, al piano di sotto si accendevano le canne e il fumo saliva implacabile. Era un posto impregnato di arte, alcool, creatività, marijuana e follia, ma anche pieno di gente che proprio grazie a questo delirante senso di libertà poteva esprimersi al meglio.

Lo dice lo stesso Zdybel, quando racconta l'aneddoto delle feste alcoliche al venerdì pomeriggio: lui, a quelle feste, non partecipava quasi mai, perché aveva da lavorare. E caspita, se gli piaceva, il suo lavoro. Il bello di lavorare in Atari era anche quello. Sì, l'ambiente era assurdo. Sì, il delirio e la disorganizzazione avevano risvolti negativi. Ma era anche un luogo pieno di gente dal talento pazzesco, dalla preparazione impeccabile, formatasi in atenei di prestigio e pronta a dare il massimo. Per cosa? Per creare videogiochi. In Atari si lavorava duro e si giocava duro. Magari il venerdì scattava il cazzeggio, ma il sabato e la domenica era impossibile trovare uno spazio per la macchina nel parcheggio aziendale, perché erano sempre e comunque tutti lì, senza un momento da perdere, pronti a dare tutto per il lavoro che tanto amavano. E, capiamoci, la maggior parte degli impiegati non prendeva mica degli straordinari, per lavorare nel weekend.

Questi e mille altri aneddoti vengono raccontati in Once Upon Atari, un documentario a episodi del 2003 diretto nientemeno che da Howard Scott Warshaw, creatore di gioielli come Yar's Revenge e Raiders of the Lost Ark (e, certo, anche di, ehm, E.T. the Extra-Terrestrial, ma non sottilizziamo) e nato perché al nostro amico giravano le palle all'idea di tutte le inesattezze riportate da altri su quel periodo. Introdotto dallo stesso Warshaw in versione cartomante, che estrae figure dal mazzo e presenta una rozza divisione per argomenti, il documentario è fondamentalmente una lunga raccolta di interviste a chi in Atari c'era, quindi lo stesso Warshaw ma anche tanti altri. Un paio d'ore di durata totale che traccia la storia dell'azienda, dagli esordi all'esplosione, passando per l'improvvisa pioggia di soldi e poi l'implosione. Una deliziosa serie di aneddoti, ricordi, racconti e occhi lucidi, da parte di gente che ha quel periodo ancora scolpito a fuoco nel cuore, in tutto un tripudio di nostalgia, nonostante tutto e tutti, nonostante anche i lati oscuri del periodo, che non vengono trascurati dai racconti. Anzi.

Il livello di produzione è quello che è, piuttosto basso e senza particolari fronzoli. Non ci si aspetti, insomma, un documentario tutto leccatino e dalla forte impronta "narrativa" come può essere Indie Game: The Movie, ma dietro alla sua natura indubbiamente povera, Once Upon Atari nasconde una pazzesca miriade di perle, episodi, scherzi e fantastiche storie provenienti da un'epoca lontana in cui fra quei folli uffici passava magari Steven Spielberg a provare il nuovo capolavoro, mentre dieci metri più in là Todd Frye si esibiva nella sua camminata sul muro all'interno degli stretti corridoi dell'edificio o Warshaw se ne andava in giro schioccando la frusta di Indiana Jones per minacciare le nuove reclute. Cose del genere. Se amate il mondo dei videogiochi e avete anche solo un pizzico di nostalgia, o magari di interesse, per i bei tempi andati, nella sua simpatica semplicità, Once Upon Atari è un documento imperdibile.

La versione in DVD è acquistabile sul sito ufficiale per la bellezza di 29,95 dollari. Oppure, può essere acquistato in versione digitale su Gog.com, ad appena 5,69 euro. Ed è quel che ho fatto io. Attenzione: il documentario è solo in lingua originale, senza sottotitoli.

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