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Io ci ho provato, ovvero la storia di un rapporto burrascoso con i cosiddetti soulslike

Io ci ho provato, ovvero la storia di un rapporto burrascoso con i cosiddetti soulslike

Tutto ha inizio nel gennaio del 2012, durante l’ascolto di un qualche podcast (probabilmente RCM). In quell'occasione era presente Alessandro “Dr. Manhattan” Apreda e, tra i vari giochi provati, il buon Alessandro ha iniziato a parlare di Dark Souls, titolo di cui io avevo solo letto qualcosa su internet (del precedente Demon’s Souls non mi ero proprio interessato) ma che avevo snobbato alla grande. Ecco, Alessandro, nel giro di cinque minuti, mi fece cambiare completamente idea.

Non ne parlò come di un gioco difficile, non raccontò com'era a livello tecnico, ma spiegò quello che aveva provato giocandoci: un’enorme, incredibile soddisfazione. Giocare voleva dire iniziare un viaggio all'inferno, forse in un posto anche peggiore, ma la redenzione, l’uscire vittoriosi, il superare ogni ostacolo veniva descritto da Alessandro come qualcosa di veramente eroico.

Dato che non mi faccio mai influenzare da quello che sento in giro, pochi minuti dopo aver ascoltato quelle parole stavo già ordinando su The Hut (sembra un millennio fa) la versione PlayStation 3.

Ammetto che il primo impatto fu destabilizzante. Il grosso problema (ben evidenziato anche dal Dr. Manhattan e dalle varie recensioni) che riscontrai sin da subito era la mia incapacità di fermare una serie di attacchi, cosa che portava al risultato di vedere il proprio personaggio, per esempio, cadere in un dirupo solo perché l’animazione del fendente portava in avanti l’avatar e non riuscivo a fermarlo.

Però effettivamente qualcosa era scattato. Mi accorgevo che mentre progredivo nell'avventura, le mie abilità, non solo quelle del cavaliere sullo schermo ma proprio le mie capacità di usare il joypad, aumentavano sempre di più. Nemici che all'inizio mi falciavano senza pietà erano poi vittime della mia furia. Schivate, parate, affondi, colpi mortali conditi con i peggiori epiteti. Stavo entrando nell'ottica del “Giorno della Marmotta”, che non è semplicemente un trial and error, ma è un vero e proprio miglioramento costante, anche mentale.

Ricordo ancora con grande goduria il combattimento con il Demone Capra, che mi ha portato via diverso tempo e ha fatto cadere parecchi santi dal paradiso. Che dire poi dei Gargoyle, che incredibilmente ho superato al primo tentativo, cosa che mi ha fatto (erroneamente) pensare di aver raggiunto un livello di bravura ormai troppo alto per avere problemi nel resto del gioco. I mille (o forse più) tentativi per sconfiggere la Strega del Dominio di Queelag mi hanno fatto tornare con i piedi per terra e un primo colpo tremendo alla mia autostima arrivò da La Scarica Infinita.

Uscito stremato da quel confronto, mi avventurai in Anor Londo, per poi soccombere (credo definitivamente) alla malefica coppia Ornstein e Smought. Sì, mi sono fermato lì, a suon di darti elettrici e martellate sul cranio. Quando ho scoperto che ero si e no a metà gioco, basta, la mia avventura nelle desolate terre di Dark Souls era giunta al termine. Mai più.

Ah, sia chiaro: per arrivare ai due simpaticoni sopra citati ci ho messo un anno, lasciando e riprendendo Dark Souls come nella peggiore relazione malata tra due amanti. Dopo aver appunto deciso di dire basta con questa situazione, credevo di essere uscito dal tunnel, ma mi sbagliavo di grosso.

Dopo mesi di anticipazioni, hype, gente che avrebbe venduto la madre per un nuovo gioco della saga, ecco che nel 2014 arriva Dark Souls II, che, senza sapere neanche perché, acquistai ancora su PlayStation 3. Qui mi accorsi che avevo fatto una minchiata cosmica. In pochi giorni capii che non solo ero completamente disinteressato al gioco, ma che quel fuoco sacro che mi aveva fatto ardere con il primo capitolo, qui, aveva proprio iniziato a bruciare. Decisi così di dare indietro il gioco (cosa che faccio veramente raramente), per evitare che perdesse troppo valore.

Il tempo passa ma quella cosa di non aver mai portato avanti il primo capitolo, comunque, è sempre lì, un tarlo che rode. Lo riprendo dopo un tempo infinito, ma giocare a Dark Souls dopo mesi e mesi di inattività è come dover giocare la finale di coppa del mondo dopo sei mesi di coma. Insomma, un disastro. Nel frattempo, si è posizionata di fianco alla TV anche PlayStation 4 e sento la vocina, a cui evidentemente piacciono i soulslike, che continua insistentemente a dire la parola Bloodborne.

E che faccio, io? Mi rendo conto che sarà ancora un delirio e risparmio i soldi? No, lo compro, in digitale, così non c’è il pericolo di rimandarlo al mittente. Devo dire che (per fortuna) l’escursione vittoriana-horror di Hidetaka Miyazaki su PlayStation 4 mi prende molto più di Dark Souls II. Probabilmente, fanno il loro anche un buon impianto tecnico e una fluidità ahimè sconosciuta sulla precedente piattaforma Sony. Mi impegno, eh! Addirittura, da un certo punto di vista, Bloodborne mi sembra “più facile” dei suoi fratellastri: gli spazi sono più ampi, c’è la possibilità di gestire i combattimenti con più strategia, poter usare contemporaneamente armi a lunga gittata e a corpo a corpo cambia di molto l’approccio a certi nemici, ma anche qui, ahimè, soccombo abbastanza in fretta, e ancora una volta decido che, OK, tutto a posto, non è il tuo genere, amen.

Però ogni tanto ci riprovo, e riprendo mazzate, mi allontano, mi riavvicino, amo e odio. Soprattutto, tiro porconi. A un certo punto mi convinco che non è tanto il tipo di gioco, ma è il setting, l’epicità che in Blooborne da un certo punto di vista mancava e che in Dark Souls era minata da alcuni nemici troppo fantasy (le rane velenose me le sogno ancora oggi). Mi informo su internet: possibile che non ci sia un bel gioco simile, magari ambientato in un setting medievale con gusto più occidentale? Ed ecco che nei meandri del PlayStation Network trovo Lords of The Fallen a un prezzo stracciato (certo, l’ho sempre pagato più di quando l’hanno messo gratis sul PlayStation Plus qualche mese dopo).

Ovviamente, acquisto. Nonostante le recensioni non proprio entusiastiche, inizio a giocare e il tutto mi sembra più alla mia portata. Il livello di sfida è più basso e il contesto è di quelli che piacciono a me, con cavalieri, cattedrali, asce gigantesche. Inizio a pensare che le recensioni sono figlie di persone molto legate ai Souls, quindi molto critiche con qualsiasi cosa che la scimmiotti ma non sia proprio quella cosa lì.

Però, poi, inizio a notare che le schivate, gli attacchi, le mosse dei nemici sono meno precisi che nei giochi From Software. Nonostante il gioco sia più che discreto, inizio a capire cosa intendevano dire tutte quelle recensioni con i “bellino ma….”. Quel “ma” è lo stesso che si usa quando si parla di quei giochi che vogliono sfidare Mario Kart, “ma” non sono la stessa cosa. Magari sono ben fatti, graficamente interessanti, “ma” non sono Mario Kart perché non hanno quella cura nei particolari. Ecco, Lords Of The Fallen non ha quel qualcosa, quel millesimo di secondo che serve per trasformare una schivata fatta nel momento giusto in un colpo critico.

E indovinate? Anche qui ho mollato. Strano, eh.

L’ultimo tentativo di chiamata alle armi è capitato qualche mese fa, quando ho provato il demo di Nioh. Stavolta (per ora) ho deciso di non spendere un centesimo ed evitare di ripulire definitivamente tutto il calendario.

Questa è la tragica storia di un amore verso un genere che è sbocciato, è morto, è rinato e forse ora siamo solo amici.

Certo, probabilmente, se potessi importare il salvataggio dalla PlayStation 3, forse forse, ma forse, rischierei di comprare anche la remastered di Dark Souls. Forse.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Ricordati che devi morire”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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