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Bartolomeo Vanzetti, uno di noi

Bartolomeo Vanzetti, uno di noi

Durante la seconda lezione di “Storia dell’architettura contemporanea” il mio prof fissò la classe molto seriamente e ci disse che sarebbe stato il caso che aprissimo un blog.

Ora, questa non è la tipica cosa che ti senti dire durante un corso in una facoltà di architettura, ma la mia generazione è di quelle che costruiranno sempre meno delle precedenti, per una serie di motivi contingenti quali il consumo di suolo, il mercato immobiliare saturo, la crisi economica, il prezzo del lavoro e compagnia cantante, e quindi avere una struttura che accogliesse articoli di vario genere poteva essere utile nel momento in cui di architettura se ne sarebbe fatta poca ma se ne sarebbe parlato comunque tanto.

Nonostante a causa della situazione ecobonus e un altro paio di circostanza favorevoli mi sia ritrovato negli ultimi sei mesi a lavorare abbastanza nel settore nel quale mi sono formato, non mi sono mai pentito di aver aperto quel brutto blog finto minimalista su Wordpress.

E tutta l’arroganza dei miei vent’anni.

Non che ci facessi chissà cosa, o che ci riversassi sopra chissà quale contenuto importante legato al variegato mondo del contemporaneo; dopo i primi sei mesi di corso divenne un posto dove scaricare tutti i post che ritenevo troppo lunghi per Facebook e che, puntualmente, non leggeva nessuno.

Ma insomma, la conseguenza più grande di quella pagina fu mantenere questa cosa dello scrivere in esercizio, più per me che per i lettori, e che mi ha comunque traghettato dai social a scrivere per N3rdcore prima e qui su Outcast poi, attività che ormai va avanti da un paio d’anni con discreta continuità.

Ma non ho mai attraversato la barricata, non sono mai diventato davvero “uno della stampa” nemmeno per sbaglio, né ci ho provato, a dire il vero, a cullare il sogno romantico di guadagnarmi il pane scrivendo, o proponendomi ad uno dei siti più o meno in declino che popolano il Settore, l’entità astratta che tipo Moloch di langhiana memoria mastica opere e prodotti per sputare fuori contenuti da dare in pasto al popolo che continuerà a consumare opere come prodotti e prodotti come opere in un circolo incestuoso e inappagabile.

Cosa c’entra quest’atteggiamento scettico, cinico e distaccato nei confronti della cultura pop, quel dire chiaramente in faccia che alla fine sono tutte cazzate quelle sulle quali un sacco di gente quotidianamente su internet sbrocca con Santa Maradona?

Grazie per la domanda.

Uscito nel 2001 e passatomi sotto traccia fino alla morte di Libero De Rienzo, Santa Maradona racconta le vicende umane di Andrea Straniero (Stefano Accorsi) intento nel districarsi tra la fine della giovinezza e una maturità che sembra lontanissima.

Per certi versi, è un film generazionale che racconta di come già vent’anni fa la situazione dei laureati italiani fosse deprimente, bloccata in un loop di instabilità emotiva e lavorativa.

Il film è interessante per un paio di motivi, il primo più lampate è che gli anni passano, ma noi, inteso come pronome collettivo che ci identifica in quello che ci ritroviamo a fare, non passiamo mai. Non è una questione di cliché, non è nemmeno ricalcare un archetipo, è esattamente quella condizione di indecisione, il vivere in bilico tra l’essere e il non essere nel momento in cui a definirti non è la persona che sei, ma il tuo status, come un fluido che è definito nella forma dal suo recipiente.

Il film avrebbe potuto tranquillamente uscire l’altro ieri e sarebbe stato comunque valido. Probabilmente sarebbe stato ambientato a Milano, ed è un dato interessante dal momento che ci racconta di come i flussi migratori interni sono cambiati nel corso degli ultimi anni.

Quello che sarebbe un normale film sul disagio giovanile nel cnoformarsi solo per potersi definire “adulti”, come se fosse una formula magica che ti risolve la vita, viene elevato allo status di manifesto generazionale per la presenza del suo attore non protagonista: Libero De Rienzo interpreta Bartolomeo Vanzetti, detto Bart, coinquilino di Andrea, suo confidente e compagno di sventure.

Logorroico, inopportuno, ignavo e accidioso, Bart è il contraltare perfetto per il personaggio di Accorsi. Dove uno cerca ancora di inquadrarsi in un lavoro o in una relazione (nonostante continui inconsciamente ad autosabotarsi), l’altro accoglie caos e precariato dentro di se in un calderone di contemporaneo che ribollendo schizza in mille direzioni diverse, padrone della sua condizione che sfrutta invece che subire e che, paradossalmente, lo mette su di un gradino superiore di consapevolezza rispetto ad Andrea perché libero dello schema sociale che lo costringe a conformarsi.

Non a caso la più riuscita delle sue beffe è guadagnarsi da vivere spacciandosi per critico letterario con le recensioni che un suo cugino gli invia da un anonimo giornale siciliano e che impunitamente firma a suo nome.

E non riesco a non sentire un cortocircuito ripensando al vecchio blog, al consiglio di inventarsi un mestiere che un professore dall’alto della sua cattedra pontificava a noi del primo anno di architettura che, in quel momento più che mai, scendevamo a patti col fatto che studiare qualcosa non significava finire a fare quella cosa, il grande non detto della nostra generazione, e che se non lavori in quello che hai studiato resti sempre tagliato a metà tra definito e indefinito, una specie di piatto mari e monti della vita professionale.

Ed è come se quell’appartamento risiedesse dentro di noi, con Andrea e Bart a giocarsela punto su punto in quel costante equilibrio tra conformismo e sregolatezza.

Il finale del film vede il confronto tra i due dopo un crescendo che li fa arrivare ad un punto morto, la monotonia nella quale cullavano le loro giornate è un meccanismo rotto nel quale non possono più incedere, davanti a loro il futuro si spiana davanti in un parallelismo con il finale di Butch Cassidy e Sundance Kid, il film che la TV spara in un montaggio alternato.

E come Butch Cassidy, anche questo stacca un momento prima del massacro: come i due fuorilegge affrontano i fucili dell’esercito, i due coinquilini escono ad affrontare la vita in una metafora un po’ a grana grossa ma che piazzata in quel modo che vuoi dirgli?

Non sono mai stato uno del Settore e culturalmente non lo sarò mai.
In questi anni ho accettato lo scrivere come la parte spuria della mia carriera, un effetto collaterale della mia professione, l’incursione barbarica che fa tremare le consolidate basi della narrazione crossmediale contemporanea.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al giornalismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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