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Ancestors: The Humankind Odyssey dimostra che l'evoluzione è un processo lento, complesso e pieno di tentativi sbagliati

Ancestors: The Humankind Odyssey dimostra che l'evoluzione è un processo lento, complesso e pieno di tentativi sbagliati

Ho impiegato davvero troppo tempo a scrivere questo pezzo e i continui messaggi di Andrea sono lì a testimoniare il fatto che Ancestors: The Humankind Odyssey mi abbia messo un po’ in crisi. La mia impasse è dovuta al fatto che se da un lato Ancestors è frutto di un concept intrigantissimo ed esercita su di me un magnetismo totale, dall’altra ci sono troppi elementi che mi infastidiscono proprio. Il vero problema intorno a cui ruota il mio disagio nei confronti del gioco di Patrice Désilets è che alla fine finisce per essere schiavo di tutte le cose che di base vorrebbe combattere, ovvero delle consuetudini basilari del videogioco che non c’entrano molto con l’idea alla base del titolo d’esordio di Panache Digital. Ma andiamo con ordine.

Ancestors ci mette nei panni di un ominide o, meglio, di una progenie di primati (Sahelanthropus Tchadensis, per la precisione) che, dieci milioni di anni fa, se ne stanno felici da qualche parte in Africa a campare sereni. Siccome però la natura non se ne sta con le mani in mano, vivere in un ambiente ostile fa sì che si scoprano nuove cose e i giocatori diventano testimoni (e protagonisti allo stesso tempo) del loro viaggio evolutivo. Affascinante, indubbio, soprattutto perché a conti fatti tutto ruota intorno al concetto di scoperta, e alla costante negoziazione tra la paura dell’ignoto e la voglia di cercare strumenti per dominare l’ambiente. Conservazione, gestione delle risorse, ambizione, terrore e spirito di sopravvivenza sono alcuni dei pilastri intorno a cui ruota un gameplay fatto di tanti piccoli loop, collegati da un semplice ma intrigante concetto: il mondo è ricco di pericoli e di opportunità e sta al giocatore scoprirli.

Le prime ore sono un mix febbrile di confusione, entusiasmo, meraviglia. Nonostante Ancestors non sia bellissimo da vedere, ha un modo di presentare la giungla (o la savana, visto che l’ambiente cambia in maniera coerente con l’avanzamento dei millenni) preistorica rendendo in maniera suggestiva l’idea di una claustrofobica selva di pericoli, dove a volte l’unica salvezza può essere la verticalità, che come in ogni opera di Désilets (che, ricordo, è quello che ha “immaginato” Assassin’s Creed) gioca un ruolo fondamentale. Inoltre, la trasfigurazione degli ambienti in base allo stato d’animo del personaggio controllato riesce a creare un paesaggio emotivo denso e facilmente interpretabile, anche quando, inizialmente, si è davvero spaesati e privi di elementi per capirci qualcosa. In questo, la rappresentazione dell’istinto e della capacità di analisi funziona abbastanza bene, e nelle prime fasi ci si appiglia a qualsiasi pezzo di informazione per alimentare quella che si scopre essere poi la meccanica principale del gioco: aumentare l’energia neuronale per sviluppare nuove abilità da trasmettere alle generazioni successive e progredire nel tempo. Tutto chiaro, se non fosse che però, all’inizio, qualsiasi cosa è più grande di noi e la morte aleggia costante in ogni manifestazione naturale.

Indovinate chi ha la fobia totale dei serpenti? E secondo voi in quale gioco ce ne sono di giganti? Non avete idea del dramma che ho vissuto.

In questa condizione di perenne ansia, il gioco non fa nulla per imboccarci, se non spingerci all’esplorazione e alla scoperta, attraverso l’uso di un sistema di controllo contestuale, che, tramite la pressione dei tasti, attiva una serie di capacità connesse alle diverse sfere neuronali: motricità, manipolazione degli oggetti, intelligenza, emotività, comunicazione, istinto e cose così. Sulla carta, questa divisione cognitiva dei controlli permette di fare tantissime cose, mentre nella realtà il tutto si trasforma ben presto in vero incubo. Schivare e attaccare? Appartengono alla motricità, quindi oh, stesso tasto, ma cambia in base alla direzione che dai, al momento giusto, alla levetta sinistra. OK. Ma io volevo saltare sull’albero! Sempre lo stesso tasto, però prima che vieni ingaggiato dalla trucissima bestia feroce più forte di te che ti vuole mangiare tantissimo. Anche una volta domato il delirio contestuale, resta la sensazione che il sistema di controllo sia pensato male, e in un gioco in cui non esiste altro se non l’interazione con l’ambiente, la faccenda diventa complessa dal minuto uno.

Tra l’altro, se c’è una cosa che ho imparato, a discapito di alcune progenie estinte in maniera amarissima, è che la destrezza e la motricità sono fondamentali (ovviamente) per sopravvivere all’inizio, perché imparare a dondolarsi fra i rami, utilizzare le due mani per attivare le capacità di interazione con gli oggetti ed entrare nel magico universo del “crafting” (tipo rompere le noci di cocco con una pietra) fa tutta la differenza del mondo, tra essere costretti ad accontentarsi di ciò che si trova e conquistarsi la sopravvivenza. Il problema è che, lato gameplay, lo stesso scarto tra la vita e una morte infausta lo potrebbe fare anche il sistema di controllo (non aiutato nemmeno dalla gestione della telecamera, a volte rivedibile), che invece rende tutto più difficile, controintuitivo, ingiusto. Certo, si potrebbe dire che l’evoluzione è qualcosa di caotico, non lineare e casuale, però, insomma, non mi sembra il modo migliore per comunicarlo.

Di contro, nei momenti più riflessivi, quando contano lo studio dell’ambiente e sperimentare con un attimo di calma, attivando l’HUD (perché inizialmente ti suggerisce anche di non farlo, ma vuol dire tipo andare incontro alla morte bendati e ubriachi) si riescono ad apprezzare tante sfumature diverse, ed è in questo senso che Ancestors resta comunque un gioco affascinante: riesce a raccontare bene l’evoluzione nelle piccole cose, nel modo in cui, nella lotta per la sopravvivenza, conquiste apparentemente minime e scontate diventano essenziali per aprire una miriade di possibilità. E di cose da fare ce ne sono sempre tante, soprattutto smarcati i primi step evolutivi. La ricerca di fonti nutrienti sempre più complesse, l’affinamento delle tecniche di difesa e i principi di costruzione che diventano via via più raffinati danno un’enorme sensazione di progresso e assolvono completamente l’idea di “far giocare” all’evoluzione attraverso le meccaniche di gioco emergenti, senza affidarsi a un’inutile cornice narrativa.

Esteticamente, Ancestors non è bello, ed è anche un po’ la fiera degli asset riciclati. Però ha comunque un suo fascino primevo.

Dunque, controlli a parte, alla fine ce la fa? Nì, perché il cammino verso l’evoluzione resta un enorme viaggio sulle montagne russe, durante il quale ho avuto la sensazione che i momenti meno riusciti non fossero quelli difficili o quei (tanti) in cui non si sa cosa fare e il gioco nicchia perché “Hey, baby, it’s the evolution game”, bensì quelli che dovrebbero aiutare a costruire le motivazioni giuste per continuare a giocare. Il motivo principale per cui Ancestors stenta non poco ad alimentare in maniera virtuosa la voglia del giocatore, per me, risiede nell’impalcatura del gioco che, in estrema sintesi, non differisce troppo da quella di un sandbox survival piuttosto standard. Per carità, anche in questo caso, l’idea è affascinante e venduta benino, però, dopo le prime ore di genuino entusiasmo, finiamo nel circolino delle attività routinarie che a una certa basta: esplora, identifica, usa, espandi. Tra l’altro, con la storia dell’evoluzione neuronale e genetica, la pur apprezzabile gestione della successione della progenie si scontra con la casualità tramite cui alcuni tratti evolutivi vengono trasmessi. Giusto, per carità, però costringere il giocatore a ripetere tutti gli step intermedi per acquisire nuovamente l’abilità non trasmessa a ogni passaggio generazionale non ha senso, perché si finisce per annacquare il gusto della scoperta con un’inutile meccanica iterativa, che non aggiunge nulla al messaggio dell’opera. Poi, certo, c’è la scusa del realismo, ma in un gioco nel quale le concessioni alla realtà sono tante, per questioni sceniche e di tipo fisico, cercare di creare un flusso in crescendo dovrebbe essere uno degli assi portanti, mentre rinchiudere il giocatore nella gabbia del checklist gameplay occulto, e quindi profondamente opaco, è una caduta di stile incoerente, rispetto al respiro ampio alla base dell’opera.

Più sono andato avanti, nelle trenta ore abbondanti che servono per arrivare al culmine dell’evoluzione, ovvero la scoperta del fuoco (idealmente, il percorso complessivo di Ancestors dovrebbe essere raccontato in tre giochi separati),più i momenti di pura meraviglia hanno cominciato a distanziarsi gli uni dagli altri, tra sessioni di grinding e altre in cui ho finito per smarcare “necessità” e andare a tentoni verso l’acquisizione di una nuova capacità in maniera meccanica, quasi come fossi in un gioco qualunque. Ecco, nel tentativo di essere unico, imprevedibile e volutamente complesso, Ancestors finisce paradossalmente per banalizzare un po’ le sue intuizioni e le sue stesse ambizioni, per colpa di un design fin troppo rigido e impacciato. È come se avesse due anime: una rivoluzionaria, che dà fiducia al giocatore, scommette sulla sua creatività e lo invita a vivere un’avventura totalmente inedita, basata sulla curiosità e sua capacità deduttiva; l’altra, invece, profondamente tradizionale e razionale, fa sì che tutto il caos creativo, alla fine, sia ricondotto a uno schema ben più semplice e lineare di quanto non sembri, con i perk da sbloccare e la linea del tempo fatta di numeretti da macinare. Le due parti non comunicano benissimo, e le transizioni sono spesso grezze, grossolane, figlie probabilmente delle difficoltà che un team di trentacinque persone, alle prese con un progetto così grosso, può legittimamente incontrare. Il risultato è che, dopo trenta ore di gioco, ci sarebbero più motivi per dire che Ancestors è una mezza occasione sprecata, che avrebbe avuto bisogno di più tempo, forse di un Accesso Anticipato, di più risorse. Tutto vero, ma contemporaneamente, la voglia di continuare a capirlo, studiarlo, provare cose, l’ho avuta fino alla fine, perché la promessa (comunque parzialmente mantenuta) di Panache Digital è comunque unica, bizzarra e innegabilmente affascinante.

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Ho giocato ad Ancestors: Humankind Odyssey grazie a un codice PC fornito dal distributore italiano. Sul mio portatile equipaggiato con una GeForce 980M, non ho avuto problemi e ho condotto, non senza difficoltà, i miei Toumai verso la difficile evoluzione in una trentina di ore abbondanti. Ancestors: Humankind Odyssey è al momento disponibile solo su PC, in esclusiva temporale su Epic Games Store, ma a dicembre arriverà anche su PlayStation 4 e Xbox One. Nel corso del 2020, invece, sarà disponibile su Steam. Come al solito, se lo acquistate su Epic Games Store passando da questo link, una piccola parte di quello che spendete andrà a noi, senza sovrapprezzi per voi.

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