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Post Mortem #30 - Pac-Man: Toru Iwatani e la tribù del WakaWaka

Post Mortem #30 - Pac-Man: Toru Iwatani e la tribù del WakaWaka

Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.

Esistono conferenze che non esistono.

Esistono prevalentemente in quel luogo uber-magico che è la GDC di San Francisco. Tipo che entri in aula, ti siedi in prima fila e sale in cattedra il professor Toru Iwatani. E ti parla per un’ora di Pac-Man, ripescando schizzi e bozze dal suo plastificato e inestimabile quaderno blu oltremare, con fare irresistibilmente tenero e incredibilmente umile. Come se si trattasse di un giochino del cazzo qualsiasi.

Sessanta minuti incommensurabili, fatti di brividi, scoperte e sorrisi indelebili. Assistere in prima fila al wakawaka di Iwatani, questa è l’ambizione massima di ogni essere non dico "umano", ma "vivente". 

Mettetevi comodi, sta iniziando il Classic Postmortem di Pac-Man, direttamente dalla GDC di San Franscisco... di SETTE anni fa! 

Tutto ruota attorno a un concetto fondamentale: Pac-Man e le donne, una sinergia vincente!

Il motivo per cui trentun’anni fa creai Pac-Man fu per attirare l’attenzione delle ragazze e condurle nel mondo degli arcade game. A quel tempo, le sale giochi arcade erano un territorio riservato ai ragazzi, erano luoghi sporchi e puzzolenti, mentre le ragazze avrebbero potuto trasformare quel mondo in qualcosa di più pulito e addirittura brillante. Pac-Man è stato sviluppato attorno al mangiare dolci, che le donne sembravano trovare un’attività così piacevole.
— Toru Iwatani, GDC 2011

Secondo le accurate ricerche demoscopiche condotte da Iwatani, le donne amano mangiare i dessert. Per illustrare alla platea i risultati di questa sua scoperta, il professore ha utilizzato una tecnica fenomenale: il mimo. Scimmiottando le generose forme della moglie, traballava satollo di qui e di là, ridendo di gusto.

E il pubblico già in visibilio.

Ora, perché Pac-Man avesse le caratteristiche di un vero e proprio giuuoco, servivano dei nemici... kawaii, che non spaventassero le gentili avventrici videoludiche. Il risultato: Inky, Pinky, Blinky e Clyde. Ed è subito scattato il momento quaderno blu, che custodiva tutti gli algoritmi, i pattern e i disegni preparatori. Con tanto di succulenta aneddotica! 

L’allora presidente di Namco (una donna) pretese che i fantasmini fossero tutti rossi. Iwatani si oppose fermamente e mantenne nella versione finale del gioco la distinzione cromatica prevista dal concept originale, a suo dire fondamentale ai fini ludici.

Dagli torto.

E dalle donne, infine, si è passati ai primati. 

Iwatani ha confermato la purissima ed ETERNA bontà ludica di Pac-Man, mostrando il video di un gorilla che ha effettivamente imparato a giocare con il gioco di Iwatani. Genio!!!

Il professore, inoltre, ha illustrato le prodigiose attività di ricerca della Tokyo Polytechnic University, dove gli scienziati giapponesi analizzano gli effetti dei videogiochi sul nostro cervello borderline - proprio il NOSTRO, il mio, quello di Peduzzi, di giopep e di Paolo Paolo Giacci Composer Paolo Giacci - monitorando le zone cerebrali che si attivano nel corso di ogni sessione ludica.

Che persona mirabile, il professor Toru Iwatani. Mi ha anche dato il suo biglietto da visita, porgendomelo a mani giunte, con il tipico inchino nipponico.

E io, come un coglione, niente. Neanche un po' di pizza di Mafalda.     

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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