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Halo 3, e il resto scompare | Racconti dall'ospizio

Halo 3, e il resto scompare | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Se sono un giocatore da console, lo debbo a Xbox 360.

Oddio, non che prima giocassi a chissà quali titoli da PC Master Race.

FLASHBACK

Il mondo dell’internet giovane e pre-social, specie nella provincia, specie in Campania, era estremamente differente da quello di oggi. Era l’ambiente a dominarti, e non c’era nessuna possibilità di fuggire alle barriere culturali che ti venivano alzate intorno. La bolla prima della bolla social erano le pareti della classe, della famiglia, e se non avevi una scappatoia alle due restavi condizionato.

Per fortuna, sotto questo punto di vista non mi è andata malissimo, nonostante una pratica col mondo dei videogiochi estremamente disordinata, legata a un hardware non eccessivamente performante, nonché estremamente debitrice di quello che riuscivo a farmi passare dagli amici. Amici, tra l’altro, con i quali si passava il tempo giocando maldestre partite a Dungeons & Dragons (3.5), piuttosto che davanti al PC.

Fatto sta che frequentavo ancora il liceo quando, a fare breccia nella monotonia di quei due o tre strategici in tempo reale e a turni ai quali ero solito dedicarmi, arrivò il primo HALO accompagnato da un «sul mio non gira, vedi se sul tuo va».

E in effetti quasi non potevo pensarci che sul mio PC girasse senza problemi.

Far saltare il primo Halo non si scorda mai. Come non si scorda il primo incontro con i Flood, come non si scorda il famigerato livello della biblioteca. Fu un imprinting.

Il metro di paragone attraverso cui iniziai a misurare le mie esperienze videoludiche successive trovandole “insufficienti”, oppure velate da un enorme, incolmabile, MA.

Intanto il tempo passava nonostante io fossi indietro; la generazione PlayStation 2 stava volgendo al termine e all’orizzonte si stagliava già l’ingombrante sagoma di Wii, un’ombra lunga con le fattezze di Giorgio Panariello.

Fu un pomeriggio d’estate che venni a conoscenza di Xbox360, ovvero quando a casa di un amico - eravamo in ballo con Mario Strikers Charged Football - la TV passò lo spot di Gears of War.

Restammo basiti.

Come se a tenere quei Wiimote fosse il nostro io bambino che l’adolescente ripudiava, mentre si accorgeva dell’esistenza di qualcosa di oscuro e pericoloso che lo attendeva fuori dalla porta di casa.
Un didascalico metaforone di quella stana età che è l’adolescenza, volendo.

L’estate finì e non ripensai a Xbox360, fino a questa fatidica pubblicità, un’altra pubblicità - per sottolineare come la TV fosse ancora, in quel tempo, portatrice di informazione - dal messaggio semplice e diretto in maniera cristallina al cuore dello spettatore.

Non serviva seguire conferenze, né ascoltare presentazioni colme di dettagli più o meno tecnici a uso e consumo di una stampa specializzata che… Un attimo, esisteva una stampa specializzata? Certo, ma anche questo lo scoprii in seguito.

Bastarono quei novanta secondi di trailer in diorama, dicevo, senza gameplay (adesso imprescindibile) non solo per vendermi il gioco, ma pure la console assieme al mondo che c’era dietro. Xbox 360, la mia tana del Bianconiglio con Master Chief nel ruolo di Cappellaio Matto che, a botte di battaglie campali ed esplosioni di veicoli corazzati Covenant, mi versava quel dolce tè allucinogeno giù per la gola.

Xbox 360 bussò alla mia porta il giorno del mio diciassettesimo compleanno, in bundle con una copia di Halo 3 che sancì definitivamente il mio legame con quella console. Quasi un simbolo a ribadire che avevo fatto la scelta giusta.

Le esperienze base che rendono Halo una delle serie più belle di sempre me le ero già bruciate con il primo, su PC, ma Halo 3 ne aggiungeva altre in scala maggiorata e con un comparto visivo migliore.

Il primo Scarab che vedi è così grande che fatichi a razionalizzarlo.

C’era mai stato qualcosa di così grosso nei videogiochi prima di Halo 3? Onestamente non lo so e nemmeno mi interessa, perché un mero dato statistico non può spiegare quella sensazione né l’eccitazione che dava il tirarne giù uno.

Girare in Wathog per l’autostrada di Tsavo.

Alta Opera.

La corsa finale per distruggere l’Arca e abbattere il Profeta della Verità, in quello che sì, è a tutti gli effetti un corridoio, ma il corridoio più epico a cui abbia mai giocato.

Ogni tanto ho dei dubbi su quale sia il mio preferito.

Ogni tanto ho dei dubbi su quale sia il mio preferito.

Halo non era soltanto questione di amore, era fede cieca. Di quel mondo così affascinante avrei voluto sempre di più, e finché ne avessi avuto sarei stato contento di votare le mie ore di intrattenimento videoludico al bianco monolito Microsoft.

Purtroppo così non fu.

Dopo uno spettacolare Halo: Reach, l’episodio prequel della saga, il sodalizio artistico che aveva portato Bungie da Oni alle vette dell’industria videoludica si concluse.

La saga che avevo amato era passata di mano.

Fu strano giocare ad Halo 4. Mancava qualcosa. Sarebbe dovuta essere la stessa cosa, eppure no, non lo era. C’era qualcosa che mi sfuggiva, ma la mia percezione delle materia di cui sono fatti i giochi era più sensoriale che razionale. Qualcosa, durante il passaggio di testimone, aveva incrinato la struttura della mia serie preferita.

Qualcosa di simile sarebbe accaduto poco dopo anche con Gears of War.

Continua.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle esclusive, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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