La singolarità della narrazione in Death Stranding
Death Stranding è riuscito indubbiamente a galvanizzare la netta maggioranza del suo pubblico. Questo è dovuto non solo alle sue peculiarità di gameplay, ma senz’altro anche dalla sua componente narrativa. Parliamo di una fantascienza distopica con forti venature sperimentali, trasversali e persino teologiche. Ma in che modo è possibile identificare la sua genealogia, la sua codifica genetica?
Potremmo cominciare percorrendo la collocazione di genere che funge da fondamenta per l’opera di Hideo Kojima. Come accennato poc’anzi, Death Stranding è una chiara opera di fantascienza, e i discreti volumi di dettagli estetici a nostra disposizione lo suggeriscono apertamente; ma il genere è vasto e oltremodo proteiforme, forte di un sottobosco contenutistico unico al mondo. Prima di continuare, vi consiglio di mettere in sottofondo l’album Purifying Fire di Lustmord per entrare in sintonia con l’argomento. La riproduzione dei brani può essere casuale.
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Tornando a noi, stavamo parlando dell’alta diversificazione riscontrabile in materia di fantascienza; d’altronde, sin dagli albori della sua scrittura, il genere ha tentato di riprodurre più forme di stupore: l’esplorazione intesa come indagine del cosmo ma anche dell’interiorità, tipica di impeccabili stilografiche come quella di J.G. Ballard, fra i cui meriti c’è l’aver sdoganato l’uso (perfetto) della “innerspace sci-fi”. Non più quindi proiettati verso l’esterno, nel cosmo, ma verso l’interno, nella mente; alla costante ricerca di qualcosa di altrettanto difficile da trovare. Per questa ragione, ritengo che la innerspace sci-fi sia un filamento presente nel codice genetico di Death Stranding.
Proprio Sam è scritto seguendo linee concettuali famigliari alla innerspace: è un uomo retrivo, fobico e chiuso in un individualismo piuttosto complesso da decodificare. L’odissea che lo vede protagonista non si limita all’azione stessa del percorrere il rudere di una nazione da una sponda all’altra, lo vede riflesso in un sottotesto in cui decostruisce nientemeno che la sua stessa personalità. In questa circostanza, emergono i suddetti legami, nonché quelle comunioni che il nostro Sam suggella con pochi ma fondamentali individui, che costituiscono un nucleo sociale indispensabile per la sua maturazione.
L’intima distopia di Hideo Kojima
Il Death Stranding (qui causale) è il cataclisma che ha radicalmente mutato non solo il volto della terra ma anche (e soprattutto) la quotidianità di ogni singolo essere vivente. La matrice distopica che abbraccia l’opera di Kojima è, di per sé, un unicum. La scrittura catastrofica osservabile in ogni media oggi esistente è alla costante ricerca di quella licenza poetica atta a invalidare l’omologazione ai canoni del genere. De facto, sempre più opere tentano il volo pindarico, avanzando topos deliranti e volutamente nonsense; non occorre dire che, nella maggioranza dei casi, queste stesse finiscono per naufragare, dal momento che mancano un fondamentale obiettivo che, al contrario, Kojima qui coglie in pieno: la catarsi. Death Stranding propone certamente una distopia, ma questa è talmente singolare nella sua concezione e nella sua messinscena da alienarsi completamente dai massimi canoni che il genere prestabilisce. Una completa liberazione dai dogmi pregressi, una catarsi totale.
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Eppure, sarebbe da ingenui credere che l’idea al buon Hideo sia venuta letteralmente dal nulla: le contaminazioni ci sono, ed è proprio grazie a queste, qualunque esse siano, che la resa finale del videogioco è così alta. L’intera esperienza mi ha riportato alla mente alcune importanti sfumature al limite del “new weird”, come la Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer, in particolar modo Annientamento per la definizione di un mondo incontaminato e innaturale; oppure Picnic sul ciglio della strada a.k.a Stalker dei fratelli Strugackij (o Strugatsky che dir si voglia), dove la vacuità compone la partitura primaria dell’opera.
Al di là di questa mia considerazione, andiamo ad analizzare il concept che definisce la singolarità di questa distopia: a seguito della comparsa di voragini colossali, l’umanità si ritrova dinanzi a una minaccia incontrovertibile. L’inaugurazione del Death Stranding e la conseguente scoperta del chiralium conducono l’umanità verso un futuro profondamente avverso – nonostante le grandi applicazioni che la materia chirale comporta. Appurato ciò, è fin troppo chiaro che stiamo osservando uno scenario tipicamente post-apocalittico, in cui la razza umana è inesorabilmente spinta verso la sua estinzione programmatica. Proprio il concetto di estinzione gioca un ruolo fondamentale e ricorrente nell’intreccio di Death Stranding, risultando il denominatore comune dell’opera; un filo conduttore che traccia la retta evolutiva e dunque estintiva di ogni essere vivente. Un mondo avverso e ostile, dove il tesserato sociale è inesorabilmente crollato sotto il peso della solitudine e della reclusione. Ad avvalorare ulteriormente il timbro distopico nell’opera di Kojima Productions è la presenza di due fenomenologie con cui verremo abituati a confrontarci nell’immediato: la cronopioggia e le C.A. Esiste una ragione per cui questi due fenomeni aggravano ulteriormente la percezione dello scenario catastrofico presente in Death Stranding, ed è chiaro persino al giocatore meno perspicace.
L’estremo apocalittico a cui la distopia cerca di fare riferimento tende sempre e comunque a porre il protagonista in una situazione di costante minaccia, attivando, di biologica conseguenza, quei fattori dediti all’autoconservazione. Detto ciò, vivere in un mondo in cui una singolare pioggia altera (o distorce) il semplice trascorrere del tempo della superficie che bagna – sia questa biologica o non – ci spinge a programmare accuratamente il nostro itinerario, a costruire rifugi appositi e, più genericamente, a fuggire da essa. Una reazione persino peggiore quando entriamo in contatto con le suddette C.A., o “creature arenate”; queste sono evanescenti entità extradimensionali che costituiscono, senza troppi epiteti, il pericolo maggiore per ogni giocatore. La sola idealizzazione di queste creature rappresenta, per il mio personalissimo gusto, uno fra i più grandi successi di Hideo Kojima in seno a Death Stranding. Sono meravigliosamente sinistre e persino mitopoietiche. Vanno al di là della nostra semplice razionalizzazione. Sono il simbolo manifesto del Death Stranding (qui nuovamente causale).
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Entità dicotomiche il cui contatto con un essere umano genera le sopracitate voragini: la collisione o meglio, l’inglobamento dell’essere umano con un’entità arenata genera un rilascio di energia, un’annichilazione violenta di materia-antimateria che ha come effetto risultante la creazione di un’enorme cratere. Altro aspetto ricorrente nella narrativa distopica è la deriva isterica e parafiliaca che l’essere umano tende a sviluppare. Questo è osservabile prevalentemente nei MULI e nei Demens, notando come il cataclisma abbia avuto effetti più devastanti sulla loro psiche che sui loro corpi. Comportamenti ed esternazioni spesso frutto della mancanza di socializzazione, che hanno alterato gravemente l’equilibrio (anche ormonale) del soggetto. Le conseguenze risultano spesso estreme, violente, persino bizzarre. Essere ossessionati dai carichi e dalla loro relativa consegna è del tutto singolare.
La morte nella fantascienza di Death Stranding
A Kojima riconosco sicuramente il merito di aver veicolato il concetto di morte attraverso un utilizzo meraviglioso della narrazione. In Death Stranding siamo di fronte a un mondo che ha appreso l’esistenza materica della morte, un aldilà dotato di una propria fisicità, ossia le Spiagge. Ancora una volta, siamo dinanzi a una fantascienza decisamente unica; un luogo che non rappresenta altro che l’approdo di ogni essere umano nel post mortem, richiamando di netta conseguenza estremi concettuali di mitologica memoria. Un risultato stilistico imponente, ulteriormente enfatizzato da una composizione visuale sinistra e impattante, caratterizzata dall’ormai iconografico “spiaggiamento di massa”.
Eppure, anche nel caso specifico delle spiagge, la cui natura sembra soprassedere la razionalità, abbiamo una spiegazione che, al contrario, gode di una forte indagine scientifica. Heartman definisce le spiagge come l’esempio più prossimo all’esistenza di un multiverso, spiegandoci inoltre come queste siano, come dire, “personali”. Ogni essere umano – nonostante si indaghi sull’eventualità che altri esseri senzienti ne abbiano una – possiede una propria spiaggia a sua volta definita dall’interiorità del soggetto.
La rappresentazione delle spiagge è solo la punta del gigantesco iceberg che Hideo Kojima ha concepito per definire la centralità della morte nella sua opera che, non vorrei esagerare, è unica e probabilmente irripetibile, forse persino per lo stesso Kojima.