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I sinuosi cinquant'anni di Computer Space | Racconti dall'Ospizio

I sinuosi cinquant'anni di Computer Space | Racconti dall'Ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Computer Space è stato presentato al pubblico il 15 ottobre 1971 durante la fiera Music Operators of America di Chicago. Basterebbe questo a decretarne l’importanza, ma non è tutto: la data appena riportata significa anche che, almeno per una volta, l’ospite ideale per l’ospizio che ha dato il nome a questa rubrica non è chi scrive, ma l’oggetto dello scrivere. Non divaghiamo, però, ed entriamo nel dettaglio. A dispetto della data di presentazione, Computer Space ha iniziato a fare capolino nei locali pubblici a novembre del 1971 ed è per questo che ne parliamo adesso. È nostra intenzione celebrare i cinquant’anni del primo coin-op della storia, nonché primo videogioco commerciale di tutti i tempi, ma in maniera un po' meno convenzionale del solito.

Ci sono infatti due possibili approcci a Computer Space: quello storico, ovvero il più importante, e quello assai più prosaico di chi con Computer Space si è trovato a lottare in tempi ben più recenti. Le considerazioni storiche, a ogni modo, sono senz’altro più interessanti e rilevanti. In primis perché Computer Space, Nutting Associates, Nolan Bushnell e Ted Dabney hanno inventato in quell’autunno del 1971 il videogioco come oggi lo intendiamo (Tennis For Two era fondamentalmente un esperimento), senza se e senza ma, e in secondo luogo perché Computer Space è sì il padre spirituale di tutti gli arcade che si sono avvicendati nel corso dei decenni, ma è al tempo stesso qualcosa di completamente diverso.

Il primo impatto con Computer Space è mesmerizzante, quasi traumatico. Quelle linee sinuose, quella vernice simil-metallizzata e quei colori sgargianti (la macchina era inizialmente disponibile in giallo, rosso e blu) provengono chiaramente da un’altra epoca, peraltro ormai remota, ma non mancano mai di sedurre l’osservatore. Non è raro sentire di persone che, pur avendo un interesse solo marginale e di formazione decisamente più recente nei videogiochi, si trovano a pensare a quanto sarebbe bello avere un cabinato del genere in casa, magari in salotto o nel tinello destinato alle serate con gli amici. Sarebbe un mero oggetto di arredo, perché in pochi ci giocherebbero davvero (si veda più avanti in merito) e soprattutto perché si parla pur sempre di una macchina della bella età di cinquant’anni, per la quale ogni accensione potrebbe essere l’ultima, ma questo non vuol dire sminuire Computer Space. Significa semmai rimarcarne uno degli aspetti rivoluzionari, ovvero quell’estetica studiata per staccarlo da una concorrenza fatta di macchine elettromeccaniche spesso simili tra loro e per farlo apparire per quel che effettivamente era, ovvero una finestra su un futuro scintillante fatto di macchine volanti e astronavi per la colonizzazione dello spazio. Un futuro che stiamo ancora aspettando, ma questa è un’altra storia…

Ed è un’altra storia anche il gioco vero e proprio. Il contrasto con il cabinato è infatti notevole, per una palese questione di limitazioni tecniche. Lo schermo (un televisore a valvole opportunamente adattato allo scopo) è ovviamente in bianco e nero, il razzo manovrato dal giocatore e le navicelle aliene da abbattere sono poco più che dei bozzetti e il sistema di controllo è piuttosto scomodo. I joystick inizialmente presi in considerazione per Computer Space erano troppo fragili e ciò si tradusse in una plancia che ospitava soltanto pulsanti: uno per lo sparo, uno per la spinta e due per la rotazione del vascello spaziale. Poco più che una barzelletta, per chi gioca al giorno d’oggi, ma bisogna considerare quanto queste meccaniche potessero apparire complesse al pubblico dell’epoca, che non aveva mai visto un videogioco perché… non ce n’erano altri, banalmente. Si trattò di un primo approccio quasi brutale, con troppe informazioni da processare (la rotazione della nave, la spinta da impartire al momento giusto, il movimento zigzagante degli avversari, l’arguzia balistica richiesta per mettere a segno i colpi… serve altro?) e troppe novità da assorbire, e questo – insieme all’elevato costo della macchina – fu uno dei principali limiti di Computer Space. Come molte innovazioni autentiche e intrise di spirito rivoluzionario, il gioco non ebbe il successo sperato: sarebbe stato necessario aspettare un anno e l’avvento di Pong, infinitamente più semplice e chiaramente meno ricercato in termini di cabinato, per assistere alla conquista del grande pubblico da parte dei videogiochi. Anche le sfortune commerciali, però, rappresentano una sorta di conferma della carica dirompente di Computer Space: chi osa troppo fallisce, spesso e volentieri, ma altrettanto spesso lascia un marchio indelebile. E Computer Space ha inventato un’industria, altro che semplice marchio.

Quel che Nutting Associates, Nolan Bushnell e Ted Dabney non si aspettavano, probabilmente, è che cinquant’anni dopo ci saremmo ancora trovati a metter le manacce dentro il cabinato di Computer Space, tentando disperatamente di tenerlo in vita per tramandarlo per intero, e non soltanto sotto forma di illuminata memoria, ai posteri. È facile lasciarsi intimidire dalla scheda a più piani di Computer Space, una volta aperto lo sportello posto sul retro del cabinato, e la sensazione è pienamente giustificata dalla realtà dei fatti. Risalire all’origine di un malfunzionamento può infatti essere dannatamente complicato, anche possedendo gli schemi e il manuale dell’operatore. Ci si conceda però a tal proposito un ultimo elogio ai creatori di Computer Space, ovvero un videogioco… senza un hardware da videogioco. Non c’è traccia di una CPU sulle schede, perché all’epoca costavano troppo. Ciò vuol dire che Computer Space è interamente basato su integrati TTL, e vuol dire anche che Bushnell e Dabney non si sono limitati a dar vita al primo coin-op della storia, ma lo hanno fatto con componenti pensati per altri impieghi. Ah, il genio. Ma torniamo ai dolori del moderno maneggiatore di Computer Space, come quelli derivanti dal dover sfilare lo schermo dal cabinato nella nefasta evenienza del decesso (apparente o definitivo, a seconda dei casi) dello stesso. Sarà il terrore di rovinare il cabinato, sarà il timore reverenziale verso un gioco così vecchio e importante e costoso, sarà la concezione dell’epoca dell’alloggiamento dello schermo (assai meno pratica di quella moderna): fatto sta che due persone possono impiegare anche mezz’ora per estrarre il maledetto televisore a valvole dal cabinato, perlomeno rispettando tutte le attenzioni del caso. E che dire della fase di test volta a verificare i malfunzionamenti o ad attestarne l’avvenuta eliminazione? Non è divertente passare due ore a grattarsi la testa nel vano tentativo di capire perché ci sia una riga orizzontale sullo schermo, per poi scoprire in modo del tutto casuale che è dovuta al collegamento del monitor a un trasformatore 220V-110V e del resto del gioco a un altro trasformatore. Identico. E collegato alla stessa presa.

A un povero vecchio, però, si tende a perdonare un po' tutto. Soprattutto se il vecchio in questione ha un aspetto ancora meraviglioso e se ha dato vita all’industria che allieta da anni tutti noi e che ad alcuni garantisce persino una tavola apparecchiata, almeno una volta al giorno (si spera). E allora, se è vero che il polso solcato a sangue da una vite sporgente in zona monitor urla mutamente “Vaffanculo, Computer Space!” (mutamente, sì: siamo in ambito fantascientifico, ma un polso non parla), è altrettanto vero che tutto il resto del corpo non può non amare questo sfavillante candidato al più vicino reparto geriatria. Di fronte a Computer Space non ci sono altre possibili reazioni se non la voglia di scorrere le dita sulle sue curve, di leggere le istruzioni sul pannello di controllo, di schiacciare il tasto di restituzione della moneta e di attendere con trepidazione che lo schermo prenda vita dopo l’accensione del gioco. Buon cinquantesimo compleanno, Computer Space. Senza di te saremmo probabilmente più tristi e meno ardenti di passione. In breve, più aridi.

Giornalisti... ma niente di serio!

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