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Racconti dall'Ospizio #85: Quell'espressione un po' così che abbiamo noi che abbiamo visto Secret of Evermore

Racconti dall'Ospizio #85: Quell'espressione un po' così che abbiamo noi che abbiamo visto Secret of Evermore

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Sono a Podunk, negli USA, ed è l'autunno del 1965.

Non so se ci sono davvero, anzi forse non ci sono proprio, vuoi perché sono nato nel 1989, vuoi perché Podunk non esiste.

Eppure, sono lì.

Ecco il cinema Bijou, fantastico questo posto, solo l'insegna mi fa brillare gli occhi; danno The Adventures of Loxley.

Penso potrei chiudere lì la giornata, davanti a un buon film, subito dopo cena.

Prima che chiuda, però, devo passare da Smith's Hardware, negozietto a due passi dal cinema, stessa via, stesso marciapiede. Subito dopo Al's, il miglior barbiere della contea, a mio avviso.
Smith ha aperto oggi la stagione dei saldi, posso finalmente permettermi quel nuovo modello di TV a colori che desidero da mesi.

Prima di entrare nel negozio, guardo il cielo: sembra ci sia un temporale in arrivo, da come soffia il vento; l'occhio mi cade sulla villa alla fine della strada, al limitare della città. Girano strane voci su quella casa, immensa, opulenta, silenziosa, con quelle enormi statue inquietanti.

Prima che lo sguardo torni al negozio, ecco che dalla villa arriva un bagliore accecante, improvviso, che inghiotte tutto.

Scorcio di Podunk nel 1965.

Sono a Podunk, negli USA, ed è l'autunno del 1995.

Non penso di esserci davvero. Certo, ora dovrei avere sei anni. Me ne sento un po' di più, vi dirò, ma Podunk continua a non esistere, soprattutto.

Sembra ieri che quella luce bianca mi ha accecato, invece sono passati trent'anni.

Il Bijou è identico, sembra il tempo si sia fermato, se non fosse per il film che danno, quasi potrei pensare che sia ancora il 1965. Per inciso, stasera hanno dato The Lost Adventures of Vexx. Ci sono generi che non moriranno mai.

Al è morto, non taglierà più capelli come solo lui sapeva fare e nessuno ha preso il suo posto. L'intero edificio è stato buttato giù ed è un mezzo cantiere, ora. Prossima apertura: un market 24/7.

Vendono ancora TV, dopo il barbiere, assieme a un sacco di altra roba. A Smith è andata meglio, si è solo ritirato dopo aver venduto il negozio, che ora si chiama Doughead ed è gestito da un omone barbuto e simpatico; è ancora tempo di saldi, come in ogni autunno da almeno trent'anni.

Dal cinema esce un ragazzo, un Marty McFly wannabe, biondino. Si è chiaramente portato il cane di nascosto in sala, sembrano molto legati.

Il cane ha visto un gatto e si è messo a inseguirlo; il ragazzo ha quindi iniziato a seguire il cane.

Di tutti i posti dove poteva nascondersi, il felino ha scelto proprio il maniero al limitare di Bodunk, ormai fatiscente, dopo la grande luce di trent'anni fa.

Da allora, nessuno ha più parlato di quella villa, di cui restano solo i racconti di qualche attempato signore.

Non vedo più il cane e anche il ragazzo è appena sparito dietro l'enorme portone d'ingresso, socchiuso da quella notte.

Ed ecco dopo pochi minuti ancora il lampo bianco, che mi abbaglia di nuovo, sempre proveniente dalla villa. Deve essere successo qualcosa, quel ragazzo e il suo cane si sono messi nei guai, me lo sento.

Bodunk trent'anni dopo.

Quella che vi ho raccontato, romanzato un pelo, è l'introduzione di Secret of Evermore, action-JRPG Squaresot, 1995 ('96 per noi Europei).

Ora, sono sicuro di non esserci stato davvero a Bodunk, in quei luoghi e in quei tempi, ma gli sfondi 2D di questo gioco hanno quel sapore di fine 16 bit che Squaresoft sapeva gestire benissimo e che con pochissimo sapevano raccontare tantissimo.

Seguito spirituale di Secret of Mana (tutto era sempre molto Secret, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta), Secret of Evermore non ebbe il successo sperato. Forse era troppa l'attesa generatasi dopo il precedente titolo.

Il gioco fu sviluppato interamente da un team di americani, Square USA, cosa che non accadde mai più, forse proprio per il non epocale successo riscosso, nonostante la nascita negli anni di un piccolo pubblico di cultori.

Se il gameplay (comunque simile a quello di Secret of Mana, in certi aspetti) non era forse la cosa più bella mai vista, l'art design era qualcosa di incredibilmente suggestivo e a mio parere più coinvolgente rispetto ad altri giochi che comunque hanno dettato legge in quel periodo e negli anni a venire (per dirne uno sempre di Squaresoft, Chrono Trigger, che è fra i re della grafica 2D).

Secret of Evermore ha quel non so che di oscuro, di marcio, di soffocante. Il ragazzino senza nome (spetta a noi darglielo) esplora Evermore, questa dimensione/sogno, una sorta di patchwork di epoche diverse (dalla preistoria al futuro distopico, passando per l'antica Grecia e l'epoca vittoriana), pronto a scoprire l'oscuro segreto che si cela dietro la sua esistenza.

Certo, rispetto a Secret of Mana o Chrono Trigger perde miseramente, a livello globale, ma ha alcuni scorci che secondo me sono unici, creati da Daniel Dociu, rumeno americanizzato, quasi improbabile da sentire in mezzo alla sfilza di nomi illustri giapponesi a cui siamo abituati. Tramite l'uso del SAGE (Square's Amazing Graphical Editor), che permetteva di non passare nulla agli sviluppatori veri e propri, i designer potevano lavorare alle loro idee direttamente “nel gioco”, controllando la loro resta visiva in tempo reale. Di fatto, dipingevano un quadro virtuale e potevano subito vederne i risultati.

L'orizzonte infinito come l'amore per i pixel.

E nulla, trovo che questa sia la magia del Super Nintendo, che lo si ami o meno (e vi parla uno che è sempre stato più orientato verso il suo rivale Sega Mega Drive/Genesis): l'essersi imposto con un certo 2D che nessuno ha mai saputo eguagliare.

Che poi, la magia degli sprite 2D è che non invecchiano mai, uniti ai livelli di parallasse che, come le quinte di un teatro, creano una profondità unica, agli sfondi che hanno prospettive tutte loro e poi ancora ai dettagli insignificanti curati a mano, che dipingono casette sullo sfondo con quei particolari che ti fanno venire voglia di entrare nello schermo per visitarle. Altro che la grafica odierna, miracolosamente fotorealistica e spesso così tanto ricca di dettagli che non riesci a focalizzarti come vorresti e finisce per passarti davanti come un (bellissimo, sia chiaro) treno ad alta velocità.

Il macchinario che risucchia il Marty dei Poveri dentro Evermore. Lo sfondo e le casse non seguono nemmeno le stesse regole prospettiche, ma è comunque bellissimo.

Non so bene perché l'intro di Secret of Evermore mi piaccia così tanto, nella sua semplicità e nella sua palese banalità narrativa, eppure lo fa.

È uno di quegli opening che non mi dispiace riguardare ogni tanto, con la faccia un po' sognante, convinto che prima o poi, una sera nel buio della sala del Bijou la passerò davvero.

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