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Racconti dall'ospizio #29 - Voi quella volta c’eravate?

Racconti dall'ospizio #29 - Voi quella volta c’eravate?

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Ho sempre immaginato la mia vita con una sliding door bella evidente nel mezzo. Nella mia esistenza alternativa io quell’estate non torno a Roma da Torvajanica, non ricomincio a giocare a Tomb Raider dopo averlo abbandonato mesi prima e continuo a guardare i videogiochi con pigro interesse e distacco, senza passione. In quella mia esistenza alternativa, io probabilmente mi drogo il giusto e scopo un sacco di più, principalmente con modelle vogliose di fare robe strane e sporchissime. Liberi di non crederci ma nessuno potrà mai dimostrare che non sarebbe davvero andata così.

E invece loro. Lara.

E invece loro. Lara.

Tomb Raider era allora, ed è ancora oggi, esattamente quello che cerco in un videogioco. Che non è mai stato Lara Croft, nonostante il successo pop del personaggio abbia convinto il mondo del contrario. Tomb Raider, almeno per chi lo ha amato davvero, non ha mai avuto niente a che fare con gli impazziti pruriti ormonali dell’adolescenza. Il porno su internet non era ancora arrivato, certo, ma in qualche modo ci si arrangiava lo stesso con forme ben più arrotondate.

Tomb Raider era l’esplorazione, intesa come un mondo da setacciare in lungo e largo con la visuale in cerca di un appiglio qualsiasi e poi dell’appiglio successivo. Era perdersi nella frustrazione di un vicolo cieco di un universo che non dispensava mille percorsi possibili ma solo tanti modi per non arrivare a destinazione. Tomb Raider era la geometria, quadrati e cubi tutti disposti uno sull’altro a formare un ambiente rigido e punitivo ma pure familiare e perfettamente leggibile. Tomb Raider eri tu piccolo piccolo in qualcosa di più grande, non un’esperienza costruita col velluto incapace di farti smarrire.

Quel dinosauro, quei graffiti egiziani appena fuori dall’acqua, quella sfinge così lontana e imponente e quelle statue che mi sorpresero prendendo vita sono ricordi ancora vivissimi nella mia mente ma erano poco più di contorno alla fatica che mi era costata raggiungerli. Laddove Dark Souls premia perseveranza e sacrificio in combattimento, Tomb Raider ti ripagava per lo smarrimento e l’esplorazione vera di un 3D che non serviva solo a pompare comunicati stampa ma che eri costretto a guadagnarti centimetro dopo centimetro in cerca di un’uscita.

Ed è questo che i vari remake/reboot della serie non hanno mai capito. Quando devi creare un Tomb Raider, non devi accontentarti di modellare un ambiente tridimensionale ma devi darlo in pasto al giocatore senza umiliarlo con appigli colorati e inevitabili traguardi. Puoi farlo male, The Angel of Darkness esiste per ricordarcelo, ma non puoi smettere di provarci perché Uncharted rimorchia di più con le ragazzine. Devi lasciarlo solo, il giocatore, abbandonarlo nel bosco e poi aspettare che ne esca con le sue di forze. Sono Lara Croft, che diavolo, lasciate che sia io a venire fuori da questa umida grotta dimenticata da Dio.

Nel mio presente non ci sono troppe modelle, lo ammetto, e posso solo consolarmi ricordando come era triste Venezia con i suoi orribili, sproporzionati e meravigliosi canali deserti. Come un anziano alle poste che rimpiange gli scomodi piaceri della povertà. Ai più giovani tra voi sembrerò solo un noioso nostalgico che vive nel passato, forse è vero, ma voi non avete mai giocato un vero Tomb Raider e questo mi dispiace.  

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