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Mad Max è l'unico diesel giusto

Mad Max è l'unico diesel giusto

Una delle leggende motoristiche più famose del mondo è quella che vede i motori diesel più lenti, rispetto a quelli benzina, nell'entrare a regime ottimale. Poi, vabbé, ci sarebbero anche quelle dicerie sul fatto che il diesel sia il carburante del demonio e che le auto diesel siano divertenti da guidare quanto un carro bestiame, con il loro piattume esistenziale e il grigiume da economica quotidianità, ma sappiamo tutti che la tecnologia fa miracoli, l’economia è cambiata e Top Gear non è più quello di una volta. Insomma, c’è rimasta giusto la leggenda, la frase fatta buona per quando ci troviamo di fronte a qualcosa che parte con un inizio non proprio pirotecnico. Un’altra leggenda motoristica famosa nel mondo viene dall’Australia. L’ha creata un dottore in medicina di origini greche che, a forza di vedere la gente sfrociarsi negli incidenti d’auto, ha deciso di tirare fuori dal cilindro un film in cui la società va allo sfascio e le persone perdono la brocca dietro ad auto e moto, creando delle specie di comuni hippy andate a male (e quindi non tanto hippy) on the road. Quel film si chiama Mad Max, perché il protagonista della pellicola è Max Rockatansky, un agente di polizia in permesso a cui succedono cose brutte che, per rimediare alla bruttura, sbrocca di testa e ammazza gli hippy andati a male. Mad Max esce nel 1979, fatto con quattro soldi e senza il benché minimo rispetto per le vite di chi ci lavora, ed è una bomba che è stata capace di ispirare più o meno evidentemente tutta l'opera post-apocalittica venuta in seguito, stabilendo gli stilemi, l'estetica e per certi versi l'epica del genere. L'ex dottore George Miller, dopo quella prima pellicola, decide di rimanere a sporcarsi ancora un po' con sabbia e benzina, realizzando Mad Max 2 nell’81 e Mad Max: Beyond Thunderdome nell’85. I due film raccontano altre storie di Max, senza però mettere per strada troppi dettagli o contestualizzare troppo le cose nel tempo.

Come nelle leggende narrate oralmente, anche nei film di Miller c’è l’eroe (sempre lui), c’è l’ambientazione (sempre quella), ma i dettagli cambiano, vengono sfumati ogni volta. Sembrano sempre quella cosa lì, ma un po’ diversa. Dopo essersi perso un po’ tra streghe, maiali e pinguini (per cui vince addirittura un Oscar), nel 2015 il nostro è tornato nel deserto, alla veneranda età di 70 anni, per girare quel capolavoro incredibile di Mad Max: Fury Road, due ore di sabbia, esplosioni, fuoco e pneumatici che sfrecciano nell’esaltazione generale. E anche qui, dopo vent’anni dall’ultima scampagnata nel post-casino, Giorgino non si preoccupa troppo di creare collegamenti e contestualizzare: il film, che per altro ha un nuovo interprete nel ruolo del protagonista, parte subito A MILLE e racconta la sua storia senza curarsi del fatto che, in linea puramente teorica, siamo davanti a un quarto episodio di una serie (che, facilmente, in molti tra gli avventori delle sale nel 2015 non hanno neanche sentito nominare).

L'ambientazione di Mad Max è sorprendentemente capace di scorci suggestivi e un'ottima varietà.

Non è forse un caso, quindi, che l'inizio di Mad Max (il gioco) sembri voler puntare fortemente sulla natura da leggenda delle storie di Max, tanto che è facile riconoscere immediatamente quella data cifra stilistica, i nomi di quella mitologia e cento altri micro dettagli e associarli a quel mondo là. Ma anche questa volta sembra voler puntare da un’altra parte, raccontando una storia nuova e slegata da tutto il resto, con un Max dal volto simile ma diverso da quelli di Gibson e Hardy. Una storia, banalmente, in cui Max dice più parole nella cutscene iniziale di quanto non faccia in quattro film.

Anche qui, come da tradizione delle storie sul personaggio, il pretesto che mette in moto gli eventi e fa muovere il nostro protagonista è un mix tra la ricerca disperata di un posto in cui nessuno gli rompa le palle e, inevitabilmente, vendetta tremenda vendetta. Sì, perché proprio in quella sequenza iniziale succede già un gran gran casino, e Max si ritrova con il cattivo di turno - dall’elegantissimo nome di Scabrous Scrotus - a rubargli la Interceptor, bella carica e pronta al lungo viaggio verso le pacifiche Piane del Silenzio. Senza quattro ruote e desideroso di riprendersi ciò che gli è stato tolto, Max accetta l’aiuto di uno storpio delle wasteland - dall’equivocabile nome di Chumbucket -  che vede in lui il pilota leggendario (wink wink), l’unico in grado di compiere il destino di magnificenza della Magnum Opus, uno scassone che (all’inizio) non ha neanche la carrozzeria. Mad Max, il gioco, sopratutto se paragonato ai film (oddio, se paragonato a Fury Road senz’altro) è quindi la definizione di un diesel: parte lentissimo. Ed è pure lì a farti prendere male con questa cosa dell’auto senza volante, immersa in un open world di cui vedi immediatamente la enorme mappa per intero, e pensi che questa cosa non può finire bene.

Invece, con somma sorpesa, il Mad Max di Avalanche è un open world atipico, che dopo la prima oretta di empasse, in cui principalmente devi prendere le misure al sistema di guida (complice anche una sessione al chiuso non proprio adorabile), si rivela immediato e divertente, pur rientrando totalmente nei canoni di questo “genere” che, dopo l’avvento e il successo straordinario di Assassin’s Creed, è finito per diventare (salvo rari casi) un continuo di scopiazzature e ricicli senza arte né parte. Certo, Mad Max ha un sistema di combattimento che è mutuato proprio da Assassin’s Creed o, se preferite, dalla serie Arkham; ma qui, complice anche un protagonista scazzato e discretamente ignorante, non c’è mai voglia di perdersi in preziosismi o di espandere troppo gli orizzonti, tanto che il modo di menare le mani rimarrà pressoché identico per tutto il gioco (è possibile sbloccare nuove mosse e nuove “tecniche”, ma in soldoni si continuerà a battere su un paio di tasti fino alla fine) e già dalle prime fasi si ha la sensazione di essere forti, o quantomeno perfettamente in grado di affrontare qualunque minaccia abbia in serbo per noi il deserto sulfureo.

Il design dei nemici è un po' sempre uguale: non un grosso problema, però peccato.

Oltre a non farti sentire un fuscello nel bel mezzo della tempesta durante le prime scazzottate, l’altro grosso pregio immediatamente evidente del gioco è quello di non essere traboccante di cose da fare, tutte uguali e a distanza di cinque metri l’una dall’altra. Se da un lato non potrebbe essere altrimenti (siamo nel bel mezzo del deserto post-apocalittico... è già tanto che ci sia qualcosa), dall’altro è rincuorante vedere come - per fare un esempio - i palloni aerostatici (l’equivalente delle torri nei giochi Ubisoft) siano pochi (non credo si arrivi a quindici), ben disposti sulla mappa (una volta sbloccati possono essere usati per i viaggi rapidi) e sempre diversi l’uno dall’altro in termini di cose da fare per sbloccarli. Si tratta di inezie, di piccoli dettagli di un ottimo level design generale, ma comunque è qualcosa che mette voglia di esplorare un gioco in cui, fondamentalmente, il mondo è tutto sabbia e devasto a perdita d’occhio… a ben vedere, considerando che l’unico Assassin’s Creed che ho finito è stato il primo, potrebbe anche essere che ho un problema con gli open world ambientati lontano dalla sabbia desertica (anche perché pure Black Flag non m’ha detto granché).

Una voglia di esplorare che si rivela assolutamente propedeutica soprattutto nelle prime ore di gioco, in cui la trama principale continuerà ad essere poco più di un pretesto per acclimatare i giocatori nel loro nuovo playground. Il viaggio verso Gastown è infatti piuttosto lungo e, sebbene ci si senta subito in grado di reggere agli urti dei War Boy, girovagare è ottimo per raccogliere i rottami con cui migliorare le dotazioni del nostro protagonista, oltre alle caratteristiche e all’equipaggiamento della Magnum Opus. Senza contare il fatto che le strade e le diverse regioni sono ancora sotto scacco degli sgherri di Scrotus, e restituirle ai vari alleati di Max significa ottenere in cambio diversi favori utili per continuare a crescere e migliorare le nostre forze.

Anche qui, sebbene non si vada lontano dagli stilemi dell’offerta open world standard, la varietà e il design tanto del mondo quanto dei singoli avamposti da conquistare sono la chiave per un’avventura che, nonostante non cambi mai nella sostanza, si rivela sempre assolutamente godibile e divertente tanto a piedi quanto in auto. La Magnum Opus, infatti, nonostante lo stato pietoso iniziale, si rivela un’arma fondamentale per sradicare le forze nemiche dai vari territori: abbattere cecchini, torri e quant’altro con l’aiuto dell’arpione (ma non solo) in dotazione è gratificante e restituisce sempre il giusto peso e la giusta difficoltà a seconda della situazione, sia che ci si trovi di fronte una struttura, sia che cerchiamo la gloria contro un convoglio di auto di sgherri.

Spendendo i rottami è possibile migliorare la Magnus Opus, aggiungendo armi, rostri, motori, ruote e chi più ne ha più ne metta. What a lovely car!

Mad Max, però, come dicevo è un diesel, e una volta conclusa la lunga fase iniziale in cui ci innamoriamo del deserto, esplorandone gli anfratti alla ricerca di risorse ed elementi per diventare ancora più forti e inarrestabili, la scintilla della trama comincia ad ardere con sempre maggiore forza, ricollegandosi violentemente a Fury Road e regalandoci momenti assolutamente suggestivi nella parte centrale, variando quel tanto che basta verso il finale per bruciare gli ultimi fumi di benzina con un paio di missioni azzeccate e poi compiersi, grazie a una conclusione a pieno regime, che pur senza toccare le vette cinematografiche (ma davvero sarebbe stato difficile riuscirci senza ammorbare il tutto con valanghe di quick time event) riesce comunque a restituire la gloria e l’essenza della furia stradale a marchio Miller.

Insomma, Mad Max (il gioco) è un ottimo open world che, proprio come il suo protagonista, ha un aspetto burbero e apparentemente se ne frega delle avversità (leggi: uscire nel momento in cui gli open world hanno intasato un mercato, ma anche “la settimana in cui mezzo mondo è girato verso Metal Gear Solid V”), ma sotto il cofano ha un cuore d’oro e voglia di dimostrare che, in fondo, il mondo (soprattutto se open) non è tutto andato a male.

Ho giocato a Mad Max grazie a un codice download PlayStation 4 fornito dal distributore italiano. Il gioco è interamente doppiato in inglese e sottotitolato in italiano, quindi non vi perderete il ritrovato accento australiano dei vari personaggi. A proposito, le macchine hanno la guida dal lato sbagliato, come si confà alle auto australiane, e se siete come me finirete il gioco senza esservi abituati al fatto che Max entra sempre dall’altro lato. GTA ci ha abituato “male”. Comunque, ho finito Mad Max in una ventina di ore, non facendo tutta la roba collaterale ma facendone comunque un bel po’, ché alla fine avevo sempre paura di non essere adeguato e cercavo di raccogliere rottami e disfare roccaforti nemiche nel tentativo di sbloccare e comprare cose. Il gioco è disponibile su console e PC, e sebbene su PC sembri praticamente l’unico gioco davvero ottimizzato da qualche anno a questa parte, con 60 fps costanti e tutto il resto, su console c’è ancora qualcosina da migliorare a livello di framerate e di pop up, comunque già sistemati con la patch del day one. Prima di chiudere, il consiglio spassionato: se vi piacciono gli open world o anche solo se vi piace Mad Max, date una chance al titolo di Avalanche. Non è rivoluzionario, ma fa bene quello che fa e, per certi versi, è pure sorprendente (e poi ci sono già un sacco di offerte su Steam e nei negozi veri, quelli con gli scaffali di una volta). Ah, se acquistate Mad Max (o qualsiasi altra cosa) su Amazon passando da uno dei seguenti link, una piccola parte di quello che spendete finirà a noi, senza alcun sovrapprezzo per voi. Per acquistarlo su Amazon Italia, cliccate qui, per acquistarlo su Amazon UK, cliccate qua.

Voto: 8

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