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Ghost Giant: Fantasma buono di quartiere

Ghost Giant: Fantasma buono di quartiere

Le coincidenze non esistono. Dietro c’è sempre un fantasma che ci mette lo zampino. Le zampone, nel caso di Ghost Giant, esordio su PSVR di Zoink Games, già autori degli stilosi Fe e Flipping Death. Impugnando due PlayStation Move, è infatti possibile ritrovarsi due enormi arti con cui interagire in un pittoresco universo, popolato da piccoli animali antropomorfi come nei libri di Richard Scarry (solo per non citare Animal Crossing). Il giocatore compare al centro di un diorama, che si consiglia di apprezzare stando in piedi. Per evitare inutili contorsioni, può ruotare la telecamera in alcune posizioni fisse, che ricoprono un’area di poco più di 180° (ma, solitamente, alle spalle non accade nulla di significativo). Il design degli ambienti è davvero curato e, pur non potendo muoversi liberamente, anche l’interazione è ricca di sorprese. Ogni sequenza, infatti, è caratterizzata da un’ambientazione originale e da una meccanica principale che tiene insieme la matrice degli enigmi (riparare e muovere un braccio meccanico, colorare una tela, raccogliere oggetti con una calamita collegata ad una lenza e via di questo passo… ). I siparietti, insieme, restituiscono l’impressione di un mondo coerente e vivo, popolato da personaggi con abitudini, temperamenti e piccole ossessioni.

Le nostre mani traslucide sono dotate di tre dita e pollice opponibile. La soddisfazione maggiore viene così dalla possibilità di esibirsi in un duplice dito medio incrociato, che purtroppo non può essere condiviso con gli abitanti del posto. L’interazione, infatti, si limita al contatto con alcuni oggetti, come avviene in un libro pop up. Indicando i personaggi, è possibile farli rabbrividire o spaventarli. Solo con il protagonista, di cui siamo gli “angeli” custodi, è possibile battere il cinque e accarezzarlo sulla testa per rassicurarlo. Ma non possiamo, per esempio, prenderlo a schicchere nel sedere mentre è girato di spalle. Peccato.

Oltre a risolvere gli enigmi, che solitamente si basano sulla rotazione e sulla manipolazione di alcuni oggetti che permettono di esplorare la scenografia (sollevando tetti, facendo ruotare abitazioni, spostando tronchi e assi per creare passaggi), disseminati per l’ambiente ci sono palle da mandare a canestro, buffi cappelli da posare sul capo dei vari personaggi e piccoli bruchi nascosti dove meno te l’aspetti. A parte qualche piccolo bug (in questo caso, di programmazione), l’interazione è estremamente piacevole. Può capitare, però, di dover ripetere una sequenza perché l’oggetto con cui dovremmo interagire finisce fuori dalla nostra portata e non c’è verso di recuperarlo, anche se, nella maggior parte dei casi, gli oggetti che servono per la risoluzione degli enigmi, se rimangono inutilizzati fuori sede per più di una manciata di secondi, svaniscono per riapparire al centro della scena. Però, il fatto che non ci siano checkpoint all’interno dei livelli e, soprattutto, il [mis]fatto che non si possano saltare i dialoghi rendono frustrante dover ripetere da capo una sequenza solo perché abbiamo lanciato un pennello in un canale e non riusciamo più a prenderlo con le nostre tozze dita azzurre (ecco, ora che lo sapete, non fatelo!). Purtroppo, sono proprio elementi come questi che influiscono sulla durata della partita, che può variare dalle quattro alle sei ore.

Dal punto di vista del gameplay, il “problema”, se così vogliamo chiamarlo, è che non esiste una vera curva di difficoltà: può capitare di rimanere incastrati nei primi livelli solo perché non si capisce come interagire e poi risolvere cinque scene di seguito senza interruzioni. L’unica abilità richiesta sta nel saper interpretare le esigenze del protagonista, tuttavia non è possibile un approccio non lineare. Le operazioni vanno svolte per lo più nell’ordine richiesto, generando quindi un po’ di frustrazione quando l’azione da eseguire non emerge spontanea.

Tuttavia, il vero problema (questa volta senza virgolette) che mi ha impedito di vivere un’emozione genuina in VR è la sceneggiatura. Pur cercando di mantenere la recensione spoiler free, non ci si può esimere dal biasimare la scelta del protagonista: un lagnoso gattino aggrappato ai maroni, a cui vorresti affezionarti ma proprio non ci riesci. Non si recupera nemmeno con gli altri abitanti, spocchiosi e spesso con backstory poco interessanti. Nonostante il design accattivante, risulta complicato provare affetto per loro e ancora più esasperante il non poterli maltrattare. Complice il fatto che i dialoghi non si skippano e che, nel mentre, l’interazione è parzialmente sospesa, risulta difficile entrare in empatia, sebbene (o malgrado?) il gioco affronti il tema della depressione. Liberi di criticare la mancanza di sensibilità del sottoscritto (è risaputo che invecchiando accade di diventare sempre più rompicoglioni) ma una scrittura briosa avrebbe sicuramente reso Ghost Giant una piccola gemma in realtà virtuale. Così com’è, è un viaggio per cui si può ben pagare il prezzo del biglietto, ma solo se si è consumatori abituali di titoli in VR. Purtroppo, non è la killer application che vi farà cambiare idea su questa tecnologia: con un Move per mano e il visore sugli occhi, il problema più serio è quello di non riuscire a buttare un occhio sul telefono mentre va in scena un’interruzione nella sospensione dell’incredulità.

Ho ricevuto il codice per PlayStation Network da Sony e ho portato a termine l'avventura in una mezza dozzina di ore, ottenendo una manciata di trofei ma senza ritornare sui miei passi per platinarlo. Ghost Giant è disponibile solo su PlayStation 4 con PSVR.

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