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Belli e dannati tra Shakespeare e Pasolini

Belli e dannati tra Shakespeare e Pasolini

La prima volta che ho visto My Own Private Idaho, tragicamente rinominato qui da noi Belli e dannati perché, oh, riesco quasi a figurarmeli i tizi della localizzazione: “Belli son belli, dannati pure, e allora…”. E allora mi sono perso, ecco.

Ricominciamo: la prima volta che ho visto My Own Private Idaho ero un felice abbonato di Telepiù che credeva religiosamente in tutto quanto gli venisse propinato dalla guida mensile acconcia. Ed era OK, visto che, in quel mondo post Mammì ma ancora pre-Netflix e, uh, pre-internet, tra la Pay TV crucca-cecchi-berluscona e il resto dei palinsesti passava una differenza come tra giorno e notte, almeno lato cinema. Del resto, è sempre grazie a Telepiù se ho avuto la possibilità di incrociare tutta una serie di film fighissimi che se sei un tredicenne di Como-cintura altrimenti fischia.

Film che qualche volta passavano appena mezza giornata in sala o venivano lanciati in home video direttamente dai festival, o da chissà quale rassegna; sempre incensati dai tizi della rivistina di cui sopra e bevuti dal sottoscritto senza troppe domande, né pretese. Tra questi, purtroppo, Belli e dannati fece eccezione.

Sarà che ero troppo pischello con gli 883 nelle orecchie per apprezzare un film che parlava del disagio e della droga dei giovani di Seattle, ché il grunge qui da noi (intendo qui da noi a Como-cintura) sarebbe arrivato non prima di un paio d’anni. Sarà pure che tutta la parte ambientata in Italia, con Chiara Caselli vestita come una Maria Rosa sminigonnata e il cameo di Massimo Di Cataldo, mi faceva un po’ cheap. Sarà quel che sarà, resta che io quel film lo presi proprio per il verso sbagliato, ma così sbagliato che per anni ho fatto puzza a tutti i lavori di Gus Van Sant, fino a quando Elephant, Last Days e Paranoid Park non mi hanno rimesso in riga.

Anche dopo il triplete, però, ho continuato ad avere la bocca amara su Belli e dannati, senza più sentire il bisogno né la voglia di ripassarci. Alla maniera di certe sbronze di vodka che poi ci vogliono anni, prima di.

Mi sono deciso a riguardarlo qualche sera fa, in via della Cover Story breathtaking, convinto di uscirne pieno di bile, e invece - vedi la vita, alle volte - ho finito per farci pace.

“You're breathtaking”.

Come ho scritto sopra, all'epoca ero troppo pischello per afferrare la capacità di Van Sant nel raccontare i postumi dell’America post reaganiana; la stessa di Twin Peaks (a proposito, quanto riesce a rendere tutto quanto lynchiano la presenza di Grace Zabriskie?) e dei primi Simpson, in grado di passare dalla depressione alla rabbia nel giro di un accordo dei Soundgarden. Non è mica un caso se due tra gli attori in ballo, il co-protagonista River Phoenix e Rodney Harvey, finirono per morire di overdose giusto pochi anni dopo e fornire a Belli e dannati un ulteriore strato di realismo postumo, generando una linea temporale in cui Joaquin Phoenix si traveste da Joker.

Tra l’altro, nel film c’è anche Flea, che per fortuna l’ha sfangata.

Comunque. Ero troppo pischello pure per apprezzare tutte le trovate visive architettate dal nostro: dalle copertine parlanti nel sexy shop alle varie composizioni di corpi che citano in scioltezza Pietà e Crocifissioni varie, giù giù fino a quelle bizzarre scene di sesso statiche che paiono uscite da una performance della Abramović. Eppoi ci sarebbe tutta la faccenda dell’Enrico IV, che all’epoca non mi aveva minimamente sfiorato.

Pietà, tipo questa.

Nel corso degli anni, avrei incrociato la storia del principe insofferente alla corona e del suo mentore di bisboccia almeno due dozzine di volte, partendo dal Falstaff di Welles fino a Il re, uscito l’anno scorso, con Timothée Chalamet nel ruolo di Hal (a proposito, lo sapevate che Hal è anche il secondo nome di Chalamet? Io l’ho appena scoperto) e Joel Edgerton in quello di Falstaff, ma all’epoca non avevo minimamente colto la matrice shakespeariana nel film di Van Sant, nonostante non ci sia il minimo tentativo di tenerla nascosta, anzi.

Al di là della spartizione dei ruoli, laddove lo Scott Favor di Keanu Reeves è il “principino” di turno, mentre il ruolo di Falstaff viene occupato a intermittenza da William Richert e River Phoenix, anche se il primo è senz’altro più aderente al modello, mentre il secondo merita un discorso a sé. Al di là della spartizione, dicevo, e al di là pure degli occhiolini sguaiati tipo la birra marca Falstaff (eh!) o le decorazioni medievali nell’ufficio del sindaco, non dico che Belli e dannati sia un'operazione postmoderna tipo il Romeo + Giulietta di Luhrmann, ma in certe sequenze poco ci manca.

Un esempio della contaminazione col teatro.

A partire dal momento in cui entra in scena il personaggio interpretato da Richert, Bob Pigeon, l’atmosfera allucinata e piovosa lascia il posto al linguaggio del teatro che incide sulla scenografia, sui dialoghi e sui costumi. Il registro linguistico del cast si fa sempre più artificioso, con riferimenti e termini desueti, e la vicinanza con Shakespeare spara al limite dell’adattamento.

Ritroveremo la stessa vernice verso il finale, ma prima di arrivarci, vale la pena di prendersi un momento per riflettere sul personaggio di Phoenix, Mike Waters, che nonostante le maschere che indossa- compagno, fratello e antitesi di Scott, a seconda dei casi - costituisce un corpo estraneo nell’equilibrio del film, perlomeno sul versante shakespeariano.

Bob Pigeon è il Falstaff della situazione (alla sua sinistra, un giovane Flea).

Quando Belli e dannati si imbarca nella dimensione teatrale, Mike è evidentemente il personaggio meno a proprio agio; una variabile esterna votata al realismo, quasi pasoliniana, che pare messa lì per smascherare l’intreccio. La sua insofferenza al sistema è sia diegetica che extradiegetica, e volendo spingere la cosa ancora più in là, si potrebbe arrivare a sostenere che l’intero film racchiuda una metafora in cui Scott e il suo mondo rappresentano il teatro (e, conseguentemente, un certo modo di concepire la scrittura), mentre Mike è il cinema. Anzi, la nuova frontiera del cinema americano degli anni Novanta. Anzi, il cinema di Gus Van Sant.

Del resto, è Mike che attraverso la narcolessia ha il superpotere di raggiungere un Idaho incontaminato e, a livello di ottiche, più aperto. Ed è sempre Mike a strappare Scott dal suo mondo sofisticato, trascinandolo in un viaggio on the road che dall’America di provincia condurrà i due fino in Italia.

In quest’ottica, la ricerca delle origini di Mike rappresenta anche la ricerca delle origini del cinema di Van Sant, che partendo dal teatro e dall’ingombrante influenza di Shakespeare, passa per l’espressionismo tedesco e la scena berlinese degli anni Settanta e Ottanta - la bizzarra parentesi con Udo Kier - per raggiungere infine la Roma degli autori neorealisti, di Fellini e, soprattutto, di Pasolini, che il cineasta di Louisville ha addirittura incontrato di persona nel 1975, da studente, durante un viaggio in Europa.

Ragazzi di vita.

Nel finale si torna in America (e a Shakespeare), dove assistiamo al definitivo distaccamento tra Scott, che accetta finalmente la propria predestinazione al potere, passando anche per una relazione eterosessuale e, nell’ottica del suo nuovo sistema di valori, “normale”, e il mondo di irregolari che ha frequentato fino a quel momento. Il doppio funerale sembrerebbe sancire l’inconciliabilità tra ricchi e poveri, nonché tra la vecchia drammaturgia e il nuovo cinema, ma se lo chiedete a me, è vero il contrario: attraverso Pasolini e i suoi “ragazzi di vita” ripudiati dalla borghesia, noialtri riscopriamo l'Enrico IV, e contemporaneamente l'Enrico IV ritrova sé stesso.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Keanu Reeves, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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