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Max Wake o Alan Payne: American Nightmare

Max Wake o Alan Payne: American Nightmare

Immaginatevi un po’ la scena: Finlandia, esterno notte (magari sono le tre del pomeriggio ma è il 20 gennaio), interno asettica sala riunioni con mobilio stile Ikea ma con molti più soldi, cartelline geometricamente allineate sul tavolo ovale di fronte ai partecipanti con un portapenne per ciascuno, bottiglia di vetro con acqua, bicchiere. Alcuni hanno in mano il contenuto delle cartelline, altri la penna, altri il bicchiere, tutti guardano intenti l’unico in piedi. Potete immaginarvi sia un pezzo grosso o un giovane e capace ex-stagista assunto al termine dell’apprendistato come prescrivono legge e buone consuetudini: dietro di lui scorre, inquadrato all’interno di una slide powerpoint, una selezione di momenti di gameplay da Alan Wake. I momenti più carichi di tensione, quando il marrone rugginoso di foglie, catapecchie di legno e macchinari lasciati ad arruginire quasi scompariva nel grigio nebbiolinoso che annunciava l’apparire dei “taken” rendendo claustrofobici i grandi spazi montani del Midwest. Il ragazzo (io me lo sono immaginato project manager esordiente, sono un ottimista) sta concludendo: “E quindi potremmo riciclare circa l’80% degli asset in una versione southern slasher caciarona in cui le uniche interlocutrici del nostro protagonista, inconsolabile non-vedovo a caccia del suo gemello malvagio, saranno incarnazione di tre diversi fetish di donna lavoratrice.”.

Termina la proiezione, le luci della sala automaticamente ritornano alla intensità normale, tutte le poltroncine compiono un giro di 45 gradi rivolgendosi alla persona dalla parte opposta dell’ovale, il quale, dopo essersi carezzato l’ampia fronte che tutti i videogiocatori conoscono, dice solo una frase: “Il tuo team quando può cominciare?”.

In un Retroutcast di due mesetti giusti fa si parlava del primo Alan Wake, della sua anima action celata più o meno bene dietro il velo di inquietudine e paura e di come, alla fine, il videogioco si potesse permettere cose che nessun altra arte narrativa si può permettere se non saltando, male, il proverbiale squalo.

Il riferimento era tanto alla scena, meravigliosamente eccessiva, stracarica di mortaretti e ‘splosioni del Valhalla Ranch, così poco adatta ad un gioco che all’inizio pareva guardare a Silent Hill (soprattutto il secondo) quanto ad American Nightmare, lo spin-off che di quella scena sembra essere il figliolo prediletto.

Se questo è un horror…

Già il fatto che la narrazione stessa si apra come una puntata di Night Springs, la pseudo-serie televisiva assolutamente-non-Ai-Confini-della-Realtà, chiarisce che “non è una cosa seria”, si rincara con panorami virati ai colori caldi dell’Arizona che staccano pesantemente rispetto al mix decadente di ruggine, foglie morte e nebbia che penetrava le ossa del videogiocatore con un freddo impossibile da scacciare anche durante le scene diurne e, infine, quando a fianco del primo save point si trova la cassetta con infinite munizioni si capisce il messaggio.

Alan Wake: American Nightmare non è Silent Hill, è Max Payne: Necronomicon. I poveri taken, presenza ossessiva che nel gioco principale tentavi per quanto possibile di schivare, diventano fantocci da tirassegno su cui scaricare illimitate riserve di proiettili 9mm, 7.62, pallettoni da doppietta (ah, i classici!), rivetti (con l’obbligatoria battuta: “Ti ho inchiodato” ha, ha… er) e, senza pietà, financo un satellite al ritmo dei Kasabian

Esprimete un desiderio…

E non è solo il fatto che dall’altro lato di una doppietta caricata a pallettoni anche gli orrori lovecraftiani non fanno più tanta impressione a chi è nato con Doom, ma anche le interazioni, e le iterazioni, spostano completamente il tono della narrazione.

Il nostro eroe non interagisce più con un agente sovrappeso, relitti di provincia, vecchietti e vecchiette pieni di risorse, ma con una bella meccanica, una bella cosmologa ed una bella curatrice di rassegne cinematografiche da salvare dal fascino vampiresco del suo doppio malvagio per ben tre “giorni della marmotta”: non è la marionetta dai fili strattonati, è l’eroe predestinato, il cavaliere in armatura a quadrettoni che brandisce la sua spada di luce, a pile infinite, e che ha dalla sua parte, esplicitamente, la storia.

Può permettersi di sbagliare quante volte vuole, tanto il finale è già scritto su pagine che non servono più a dissipare l’oscurità ma a sbloccare un arsenale da FPS classico con cui far volare via gli avversari “ammazzandoli in faccia”.

E l’antagonista, appunto, non è una oscurità dai fini incomprensibili ma un comprensibilissimo cumulo di pulsioni represse dal non disprezzabile senso dell’umorismo.

Comprereste un auto usata da questo tipo? Vi CONVIENE farlo.

È un cattivo da film action, non da horror lovecraftiano, ed è divertentissimo grazie all’interpretazione congiunta del bravo Ikka Villi, che gli dà volto e mimica “strappandola” dalla stolidità dell’eroe, e del bravissimo Matthew Porretta che qui è finalmente libero dalle pastoie che imbrigliavano la voce ansiosa ed ansiogena di “solo AlanWake” e può fare quello che gli riesce meglio meglio: il matto.

Profumo di disco di platino.

È un cattivo accattivante, divertente, dispiace quasi rovinargli la festa.

Non è terrorizzante. Nulla è terrorizzante in American Nightmare: l’edizione slasher di Max Payne che non sapevo di volere ma che ho scoperto di adorare.ù

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Doom, agli sparatutto e alle sparatorie, che potete trovare riassunta qua.

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