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Il gigante di ferro che decise di essere piuma

Il gigante di ferro che decise di essere piuma

Nel periodo che va dagli anni Quaranta agli anni Ottanta del secolo scorso, i successi al botteghino dei film firmati Walt Disney Animation Studios spinsero le major di Hollywood a buttarsi a capofitto nel business dei cartoni animati e ad aprire, con l’impiego di ingenti risorse economiche, i propri studi d’animazione. Alla fine degli anni Novanta, però, le cose cambiarono. Il tramonto del periodo d’oro Disney - quello che gli appassionati indicano come “Rinascimento” e che va da La sirenetta (1989) a Tarzan (1999) - l’avvento dei primi film animati in digitale e i costi proibitivi dell’animazione tradizionale, in concerto con il flop al botteghino di alcune pellicole, ebbero due effetti: il progressivo abbandono del disegno animato classico in favore della computer grafica e la scrematura delle aziende del settore in tre grandi conglomerati. Mentre Disney e Dreamworks mettevano in piedi una scuderia di superstar del campo dell’animazione, lautamente stipendiate e dotate delle migliori risorse, il Warner Animation Group era il posto sfigatello dove finivano gli scarti, gli underdog rifiutati dalle altre due aziende.  In un’intervista, Jennifer Cardon Klein, animatrice di Space Jam e del flop La spada magica - Alla ricerca di Camelot, definì il gruppo come ‘i Bad News Bears dell’animazione’, riferendosi alla scalcinata banda di giocatori di baseball del film Che botte se incontri gli orsi del 1976. Ciò che mancava a questi outsider, che provenivano da realtà diverse e non avevano mai lavorato insieme, era un coach che tirasse fuori da loro il meglio, un po’ come quello interpretato da Walter Matthau nel film, capace di condurre gli Orsi alla finale contro gli Yankees.

Nel 1997, Brad Bird, il futuro regista de Gli Incredibili e Ratatouille, stava realizzando per la Turner Animation un noir animato, ambientato in una sorta di utopia futuristica in cui la tecnologia e l’iconografia erano ispirate a quelle presenti negli anni Trenta americani, intitolato Ray Gunn. Quando la Turner, conseguentemente alla scrematura degli studi d’animazione di cui sopra, venne acquisita dalla Warner Bros., i dirigenti della major dichiararono di non essere più interessati a Ray Gunn e invitarono Bird a lavorare su uno dei progetti che avevano già in cantiere.

Brad Bird qualche anno dopo.

All’epoca, Il gigante di ferro era molto diverso dal film che possiamo apprezzare oggi: era una trasposizione del musical teatrale, con le canzoni del leader dei The Who Pete Townshend, tratto dal libro di Ted Huges The Iron Man; il look del robot assomigliava più all’uomo bicentenario dell’omonimo film con Robin Williams che alla sua versione definitiva, la storia era ambientata in un’epoca e in un luogo indefiniti e nel finale c’era una battaglia con una sorta di kaiju venuto dallo spazio, metà drago e metà pipistrello.

L’arrivo di Brad Bird rivoltò come un calzino il progetto: innanzitutto, consapevole che l’era dei musical animati fosse finita, decise di dare il benservito a Townshend, che alzò le spallucce e disse “Well, whatever. I got paid”, senza scomporsi più di tanto. In secondo luogo, contattò Joe Johnston, regista di Jumanji e supervisore degli effetti speciali della trilogia classica di Star Wars, e gli chiese di dare al robot una personalità estetica meglio definita. Partendo dalla silhouette di Braccio di ferro (braccia smilze e avambracci sproporzionati), Johnston elaborò l’ormai celebre design del gigante di ferro, stilizzando ed eliminando labbra, naso e occhi umani, per realizzare qualcosa che avrebbe fatto scuola in futuro in termini di comunicazione dell’espressività attraverso la gestualità e gli occhi (vedi WALL-E). Infine, ed è questa forse la rivoluzione più importante, Bird decise di ambientare la vicenda in un’immaginaria cittadina della provincia americana (Rockwell, Maine) degli anni Cinquanta, portando nel progetto non solo i tanti elementi grafici che caratterizzano il periodo storico e che hanno fatto la fortuna dei tanti prodotti audiovisivi che offrono una prospettiva idealizzata dei fifties, ma anche tutte le contraddizioni, le paranoie e le fobie dell’epoca. Il gigante di ferro non è solo il film dei diner con le cameriere col grembiule e i capelli vaporosi pieni di lacca, dei frappé con la panna e la ciliegina sulla sommità, delle biciclette Schwinn (HI HO SILVER, AWAY!) e dei primi televisori tubo catodico in legno, con i sintonizzatori a lato, che trasmettevano filmacci horror di serie B. È anche e soprattutto una storia pregna della corsa allo spazio e delle paure legate alla minaccia rossa, all’olocausto nucleare e all’invasione aliena che ispirò Ultimatum alla terra di Robert Wise. Una storia in cui poco importa se il nemico ha la forma di un comunista o di Klaatu, l’importante è essere sospettosi e xenofobi nei confronti di qualsiasi cosa provenga dall’esterno.

Realizzato con budget e tempi di lavorazione dimezzati rispetto a quelli di un film Disney, ma con grande libertà creativa, Il gigante di ferro si rivelò un flop al botteghino, a causa di una campagna marketing non all’altezza e di un’uscita nelle sale in contemporanea con Il sesto senso di M. Night Shyamalan, che rubò tutta l’attenzione dei media e del pubblico. Ma nel tempo, il film di Bird seppe ritagliarsi lo status di film cult, grazie a una mossa commerciale geniale (a chi acquistava il biglietto di Pokémon il film - Mewtwo colpisce ancora veniva regalato un coupon di 2 $ di sconto per l’acquisto delle edizioni home video), ai tanti riconoscimenti ricevuti e ai ripetuti passaggi televisivi su Cartoon Network, durante le festività dei giorni dell’indipendenza e del ringraziamento.

L’idea che sta alla base de Il gigante di ferro è per certi versi simile a quella degli high concept movie e, nella forma, è quella che plasmerà la maniera di Pixar di approcciare una storia: 'What if a gun had a soul?' Sin dai primi minuti, Il gigante di ferro chiarisce quale sia, sul piano narrativo, il suo pregio migliore: essere letale sulla breve distanza, cioè capace di commuovere e di comunicare un’ampia gamma di emozioni in pochi fotogrammi, e, di conseguenza, risultare godibilissimo per tutta la sua durata.

È il 1957. Mentre lo Sputnik 1 sorvola gli Stati Uniti, un oggetto non identificato attraversa l’atmosfera. In un mare in tempesta, un navigatore scorge quello che sembra essere un rassicurante faro, ma che si rivela invece uno degli occhi luminosi di un enorme, minacciosa creatura, la stessa che più tardi il piccolo Hogart Huges incontra nella foresta dietro casa, intenta a divorare i componenti metallici di una centrale elettrica. Ma lo spaventoso robot alto trenta metri non è altro che un innocente bambinone. Forse a causa di una botta in testa, il gigante è regredito a uno stato infantile: non capisce il pericolo rappresentato dall'elettricità, scimmiotta gli umani, fatica a mantenere la soglia dell'attenzione, non conosce la differenza tra giusto e sbagliato, è in balia di emozioni fuori controllo. E infatti, il primo sentimento che spinge Hogart a interagire, posando il primo mattone di una meravigliosa amicizia, è la pietà nei confronti del mostro sofferente attaccato ai fili dell’alta tensione. Dopo soli quindici minuti, il film ha già chiarito le proprie intenzioni e ribaltato la prospettiva sul gigante almeno un paio di volte, e lo ha fatto con una grazia nella messa in scena fuori dal comune. La stessa grazia messa in mostra più avanti, quando il mostro si rifiuta di interpretare il cattivo Atomo durante un gioco con Hogart, oppure quando scopre la morte in seguito all’uccisione di un cervo appena incontrato per mano di due cacciatori.

Per comprendere la grandiosità e l’unicità del messaggio de Il gigante di ferro, può tornare utile la visione di una scena tagliata dalla versione uscita in sala del film e reintegrata nella Signature Edition, pubblicata in Blu-Ray e in DVD nel 2015.

Dopo aver assistito alla morte dell’animale, Hogart spiega al triste gigante che uccidere è sbagliato, ma che non lo è morire, perché le creature con un’anima sono a loro modo immortali. Riflettendo sui difficili concetti appena esposti, la semplice mente del robot rielabora in un sogno il suo passato e la sua natura di arma di distruzione di massa, osservando da una prospettiva nuova le terribili gesta compiute da lui e dai suoi simili su altri pianeti.

Il gigante di ferro, come gli altri film animati di Brad Bird, è un’opera che parla di una scelta. In Ratatouille, il topo Remy deve scegliere tra la famiglia e il sogno di diventare uno chef. Ne Gli Incredibili, Bob Parr deve scegliere tra una vita tranquilla e l’azione. In entrambi i casi, i personaggi portano dentro di loro una grandezza sopita, che aspetta solo di essere sprigionata. Ne Il gigante di ferro, invece, non è così. Non si tratta solo di scegliere tra essere Atomo o Superman: come negli altri casi, si tratta di abbracciare la propria natura o di rifiutarla, ma mentre la natura di Remy e Bob è positiva e rinunciarvi significherebbe impedire al mondo di diventare un posto migliore, la natura del gigante di ferro è distruttiva. È morte, distruzione e disperazione, perciò il rifiuto e il sacrificio da groppo in gola che ne scaturisce è di diversi ordini di grandezza più potente.

Ed è un messaggio che ben si sposa con un altro concetto semplice, ovvero l’idea (ritenuta assurda dai membri dell’esercito rappresentati nella pellicola) che un essere pacifico possa difendersi se attaccato. Concetto che, per altro, valse al film una serie di critiche molto stupide sul fatto che fosse un'apologia della politica estera dell'Unione Sovietica: “That’s what Soviet apologists said about the U.S.S.R., too” scrisse Rod Dreher sul New York Post nel 1999.

Il gigante di ferro è un meraviglioso pezzo di storia dell’animazione, latore di un messaggio pacifista e di una filosofia antixenofoba. Attraverso la storia di amicizia tra un robot di trenta metri e un ragazzino con le orecchie a sventola, mette alla berlina chi vuole "scoprire chi diavolo è e chi l'ha mandato da noi" solo dopo aver usato la forza, chi ritiene che il fatto che “non l’abbiamo costruito noi” sia un motivo più che sufficiente per temere il peggio e fare a pezzi la creatura, chi offre soluzioni semplici - tipo mettersi pancia a terra sotto un tavolo per sopravvivere alla deflagrazione di un ordigno nucleare - a problemi complessi. Un film che, diciannove anni dopo la sua uscita nelle sale, appare attualissimo e, visti i tempi che corrono, necessario.

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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