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Racconti dall'ospizio #81: Nella sala giochi che vorrei, un PC Engine è meglio di Sasha Grey

Racconti dall'ospizio #81: Nella sala giochi che vorrei, un PC Engine è meglio di Sasha Grey

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Tra gli errori commessi durante la mia vita, già rimpiango la promessa di scrivere qualcosa per Outcast durante il fine settimana del destino™ , quello in cui il portafogli muore ma la libido s'impenna oltre i limiti del settimo senso. Senza giri di parole, ora vorrei stare spaparanzato sul divano guardando la seconda stagione di Stranger Things mentre vado a caccia di lune con lo Switch poggiato sulle ginocchia, programmando nel contempo strategiche pause per esplorare l'Egitto tra piramidi e assassini o sforacchiare i nazisti di Frau Engel. Potevo muovermi un po' prima, certo, ma sono stato inondato di lavoro tra ufficio e The Games Machine, quindi la sacra tecnica del "fai tranquillamente dopodomani quello che non potresti fare oggi neppure in una giornata di 64 ore" mi ha nuovamente indicato la via, presentando però puntualmente il conto da saldare. Però non potevo sottrarmi a questo appuntamento, perché giopep ha tirato fuori l'argomento magico.

Il PC Engine per me è più di una console; è un mantra, una religione, un amore incrollabile nonché una bolla temporale ovattata, morbida e accogliente. È la mia confort zone videogiocosa, una macchina davanti alla quale mi sento bene e gioco al meglio, sempre e in qualsiasi momento. Ricordo ancora la Serata Otto Bit a Forlì, evento durante il quale conobbi Fabio Bortolotti, lì per un concerto. Ero in piedi dalle quattro del mattino, avevo in corpo litri di alcolici e la stanchezza si faceva un filo sentire, ma nel trambusto della serata e della sigla di Kenshiro in salsa chiptune, ero riuscito tranquillamente a raggiungere l'ultimo boss di Winds of Thunder con un solo credito, per poi abbandonare e dedicarmi a una partita a Barbarian potenzialmente perfetta, giocata senza farmi colpire da nessun nemico solo per essere arrostito da una palla di fuoco vagante durante lo scontro finale, ché Drax c'ha la mamma puttana.

Gioco della madonna + colonna sonora epica + Masamune Shirow. Che gli vuoi dire?

A parte i barbari di Steve Brown, non credo che - in una simile situazione - sarei riuscito a giocare con tale naturalezza su qualsiasi altro sistema da gioco: fottesega della stanchezza e del casino deflagrante, con il PC Engine il mio cuore è calmo, mi sento a casa. E appunto a casa, mentre scrivo, ho alla mia sinistra un Duo-R, che occupa la mia seconda scrivania assieme a un C64, un MSX2, un Vectrex e un paio di monitor. Più in là c'è il mio buon vecchio Duo, con modifica RGB region free realizzata millemila anni fa dal vecchio Takafumi, un amico giapponese conosciuto nel 1999 in Germania che purtroppo non c'è più. A fianco, c'è il modello originale nella sua valigetta, assieme all'unità CD-ROM2; quest'ultima la dovrei revisionare con un ingranaggio che ho già comprato su ebay (si tratta di un pezzo purtroppo soggetto a usura), ma devo trovare il tempo. Poi, lì vicino, in cima a uno scaffale dove osano solo gli Atari 7800, trova dimora il SuperGrafx, graditissimo regalo del mio amico/fratello Andrea Porta in cambio di una PCB bootleg di Rastan e una supergun, per cui successe un mezzo casotto all'aeroporto di Pescara.

Addetto alla sicurezza: "Può aprire la valigia? Cos'è quell'aggeggio lì in fondo?"
Dan Hero: "Rastan!"
Addetto alla sicurezza: "Cioè? Che vuol dire?"
Dan Hero: "Rastan, no? Il videogioco della Taito del 1987!"
Addetto alla sicurezza: "..."
Dan Hero: "Rastan!"

Rastan che attende pazientemente le beghe aeroportuali.

Rastan che attende pazientemente le beghe aeroportuali.


Poi, infine, sullo scaffale di fronte riposa nella sua scatola il PC-FX, se proprio vogliamo considerarlo della famiglia. La morale della favola? Sebbene ne possieda diversi modelli, estrarrei comunque la carta di credito con la velocità di Hattori Hanzo qualora spuntasse un buon affare per una variante non ancora in mio possesso, come lo Shuttle. Anche adesso.

Perché? Eh, bella domanda.

Immaginate la scena, ora che siete proiettati alla grandissima verso gli anni Ottanta: sono i primissimi giorni di settembre 1988, io e i miei amici sediamo fuori dalla sala giochi, con davanti il mare. La malinconia delle vacanze che volgono al termine si fa sentire per un attimo, prima di venire spazzata via come neve al sole davanti a un numero di Zzap! che spacca tutto lo spaccabile. La triade composta da The Last Ninja 2, Hawkeye e Barbarian 2 si qualifica subito come la cosa più bella del mondo, almeno fino a pagina 75. Poi avviene il dramma.

Il dramma. Fossero tutti così, i drammi.

Il dramma. Fossero tutti così, i drammi.

Pagina 76 ospita l'anteprima del primissimo numero di The Games Machine, una rivista che negli anni avrei imparato a conoscere abbastanza bene. Tra le foto, spicca quel mostrone alieno lì incredibile. All'epoca non sapevo che il sig. mostrone alieno rispondesse all'anagrafe al nome di Dobkeratops, né avevo mai visto prima R-Type: tutto quello che importava, comunque, è che graficamente spaccava ani con la potenza di un milione di soli, e che bisognava proprio comprarla, 'sta nuova rivista, per saperne di più.

Quel momento cambiò la mia vita, mescolando le carte in tavola. Fino al giorno prima, Obliterator di Psygnosis si ergeva erculeco come desiderio videoludico definitivo, ma l'arrivo di quella esotica macchinetta delle meraviglie non mi fece capire più nulla: tutti belli 'sti Atari e 'ste Amighe, certo, ma il PC Engine pareva davvero il portale dorato verso l'oriente misterioso (con tanto di brigante generoso) che ammiravo tanto, tra videogiochi arcade e cartoni animati. Un sentore che andava via via rafforzandosi con il passare del tempo, quando le recensioni pubblicate tra TGM e la rivale K confermavano il PC Engine come piattaforma ideale per far girare conversioni arcade fatte come Surtur comanda, bellissime e lontane anni luce dagli obbrobri che eravamo costretti a sorbirci sui computer occidentali.

Sul numero 172 di Retro Gamer, la redazione ha avuto l'ardire di pubblicare i propri punteggi a Galaga '88, sfidando i lettori: un affronto prontamente sedato nel sangue.

Sul numero 172 di Retro Gamer, la redazione ha avuto l'ardire di pubblicare i propri punteggi a Galaga '88, sfidando i lettori: un affronto prontamente sedato nel sangue.

Il colpo di grazia fu la conversione di Galaga '88 (uno dei mei giochi preferiti di sempre) che pareva davvero arcade perfect, almeno in un'epoca priva di x68000; dopo averne letto una recensione striminzita ma soddisfacente apparsa sul numero 9 di TGM, era chiaro che il mio futuro doveva essere popolato da fantascientifiche HuCard e fichissimi quanto avveniristici dischi argentei.

Il punto è questo: prima dell'opera omnia di San Salmoria e dei suoi discepoli, il PC Engine era un po' il nostro Multiple Arcade Machine Emulator. Vigilante, R-Type, Splatterhouse, Gradius, Rainbow Islands, Side Arms, Ninja Spirit, Mizubaku Daiboken e tanti, tantissimi altri successi trovavano terreno fertile nella magistrale architettura della macchina NEC. Un aspetto che non approfondiamo in questa sede, giacché mi sono promesso di limitare al massimo il pippone storico & tecnico.

La console NEC era davvero una sala giochi da portarsi dietro, tra piccolissima unità centrale (il modello originale misura appena 14x14 cm) e una manciata di schedine cariche d'amore. Addirittura, molti successi a gettone godettero di una trasposizione domestica solo ed esclusivamente su tale piattaforma, vedi Legend of Hero Tonma (c'era in programma una versione Famicom, persa però nelle nebbie del vaporware) o Jigoku Meguri, mentre spesso e volentieri gli adattamenti domestici in terra NEC vantavano succose caratteristiche extra, come il gioco cooperativo in Operation Wolf.

Operation Wolf per due giocatori? Che stregoneria è mai questa?!

Operation Wolf per due giocatori? Che stregoneria è mai questa?!

Diciamo che, fino alla prima metà degli anni Novanta, la ludoteca del PC Engine regnava ancora alla grande, tra conversioni e software originale fantastico. Ti piace Gauntlet? Dungeon Explorer è superbo. Vuoi lo sport? Con Final Match Tennis non ti schiodi più dalla console. Hai voglia di sparare? Hai l'imbarazzo della scelta tra ta Gunhed, Soldier Blade, Rayxanber III e decine di altri titoloni difficilmente replicabili sulle altre macchine. Anche quando il panorama arcade cominciava a mutare, rivolgendo lo sguardo all'inarrestabile fenomeno dei giochi di combattimento competitivi, l'ormai anziano PC Engine continuava a lottare con il decoro e la compostezza di un vecchio samurai affidandosi alla potenza dell'Arcade Card, un'espansione da due sostanziosi mega con cui dar vita alle migliori conversioni domestiche di Garou Densetsu 2 e Special, World Heroes 2 e Ryuko no Ken. Lungi dall'essere arcade perfect, certo, tuttavia significativamente migliori rispetto alle controparti per Megadrive e Super Famicom, nonché prive dell'effetto disc jockey impazzito che trasformava gli adattamenti di Magical Company (ex Home Data, gli stessi di Reikai Dōshi, il primo gioco di combattimento con personaggi digitalizzati: Mortal Kombat SUCA.) su x68000 in un sanguinoso calvario.

Ovviamente la sala giochi del PC Engine non era perfetta: mancavano i tamarri che fumano e chiedono se c'hai duecento lire ma, allo stesso tempo, mostrava qualche punto debole. Risultavano assenti ingiustificati dei brawler a scorrimento decenti, con l'offerta migliore rappresentata da Tenchi wo Kurao di Capcom e da un competente adattamento di Double Dragon 2 a cura di Naxat: un remix dell'episodio per Famicom con livelli reimmaginati, sprite non fantastici e una colonna sonora inedita che "va a gusti", giusto perché oggi mi sono svegliato diplomatico. Golden Axe venne programmato dal mio culo in persona, pare; nel 1990 mi lasciò solo, volando in Giappone per adattare il campione d'incassi SEGA per conto di Renovation, mostrando evidenti carenze nel campo della programmazione e della grafica. La separazione fu davvero problematica, tra l'altro.

Oh, almeno la copertina è bellina.

Oh, almeno la copertina è bellina.

Non nominatemi neppure Crest of Wolf, un clone di Final Fight noioso e senza l'ombra di armi extra, nato come riscrittura di Riot City. Ovvero un pessimo gioco pubblicato su scheda System 16 da SEGA e realizzato da Westone durante un periodo di scazzo completo, riproposto in formato domestico alterando personaggi, livelli e nemici, perdendo nel processo di conversione anche la modalità per due giocatori.

Però dai, il risultato finale non cambia: in un'ipotetica scala di valori anni Ottanta, avere una sala giochi in casa è un sogno che raggiunge il podio senza sforzi, scontrandosi in finale esclusivamente con la prospettiva di limonare durissimo con Patsy Kensit dietro la scuola. Il PC Engine è stato la prima macchina a rendere tangibile un tale desiderio (no, non parlo di Patsy), aggiungendo a videogiochi bellissimi generose dosi di nipponica bellezza, che male non fa.

Le sale giochi erano ambienti variegati nell'aspetto e nella fauna, ma universalmente accumunate da alcuni tratti. Fumosi tuguri popolati da tizi loschissimi si alternavano a fantascientifiche strutture animate da neon e sistemi idraulici degni di un luna park, tuttavia preferisco ricordarle universalmente come fantastici luoghi d'aggregazione dove divertirsi assieme agli amici, tutti ubriachi di canzoni, occasionali bestemmie  e allegria. Anche se dalle mie parti non esistono più, accendendo il PC Engine e mi godo i giochi per cui andavo pazzo da giovane, portando tutto l'ambaradan a casa degli amici in uno zainetto, esattamente come allora. Non si tratta delle sole conversioni (belle, bellissime, incredibili all'epoca ma assolutamente non perfette, volendo essere onesti), bensì della somma delle singole parti: una macchina dal look incredibilmente sexy, nata la bellezza di trent'anni fa in una terra esotica e irraggiungibile, rivoluzionaria per tante intuizioni e dotata di una libreria che ancora oggi continua a stupirmi. È il mio piccolo, romantico angolo di Giappone, l'anello mancante tra le sale giochi e la TV di casa, la macchina su cui potevi giocare a Chi no Rondo e morire felice subito dopo, volendo.

E ora vi saluto. Se permettete, ho uno Shuttle da prendere.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo

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