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Racconti dall'ospizio #224: Siamo proprio sicuri che Devil May Cry 4 fosse così bello?

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

È abbastanza fastidioso sapere che un tuo parere su qualcosa, formato oltre dieci anni fa attraverso conoscenze parecchio limitate e di lì mai più sfiorato, sia non solo minoritario, ma probabilmente anche sbagliato. Mi succede adesso con Devil May Cry 4; un titolo a cui ho giocato anche per parecchie ore, ma di cui ho interpretato Metacritic delle recensioni dell’epoca, abbastanza alto, come le classiche sviste organizzate da parte della critica del settore. Oggi, pensando a Devil May Cry 4, mi viene in mente solo un buon action, con un backtracking abbastanza fastidioso, un bilanciamento della progressione imbarazzante e un’estetica di contrasti a dir poco urtante. Questo pensiero va però contestualizzato alla persona che ero allora: un sedicenne che aveva da poco ricominciato a fruire in modo eterogeneo della propria console, che al contrario, fino a poco prima, aveva alternato nel proprio lettore ottico una selezione assortita di varie edizioni di Pro Evolution Soccer, più una miscellanea di giochi ricevuti in prestito senza grande criterio.

Il personale punto di riferimento per affacciarsi a quel Devil May Cry 4, prima esperienza col brand, era il primo God of War: due action, di cui quello di Capcom definito come più profondo e tecnico, delle premesse insomma accattivanti. E invece, appena iniziato il gioco, mi trovo davanti un titolo tutt’altro che tecnico, o profondo; una sensazione che permane anche dopo averlo completato. Partiamo da Nero, lasciando però perdere le considerazioni sulla caratterizzazione, figlia della sotto-cultura emo dominante ai tempi: un protagonista con in saccoccia appena una manciata di combo, grossomodo eseguibili tutte attraverso la pressione alternata di un unico tasto. Poi il Devil Trigger, una presa, attivabile con la pressione di un altro tasto, abbastanza da dilettanti e che si era rivelata una di quelle scorciatoie di comodo per sconfiggere agilmente i nemici meno ostici, facendo così interiorizzare al giocatore ben poco dell’intero sistema di combattimento. E infatti, a circa metà gioco, i nodi venivano al pettine, quando a prendere la scena era Dante, vecchio nuovo protagonista i cui tecnicismi finivano per rincretinire il giocatore, abituato fin lì a utilizzare un ben più semplicistico Nero – una sensazione, questa, acuita poi da un backtracking che ti obbligava a mortificarti, ripercorrendo i combattimenti fino a prima affrontati senza troppi patemi d’animo, ma che con le possibilità offerte da Dante finivano per lasciarti un senso di impotenza, di fronte a tutto quel ben di dio messo a disposizione.

Tutt’ora amo gli action, e quella di Devil May Cry 4 rimane una breve parentesi superata soprattutto con Bayonetta, che qualche anno dopo riuscì ad offrirmi tutto quello che cercavo ma che la rabbia adolescenziale di Nero proprio non poteva darmi: dalle combo articolate fino a un kitsch totale. Eppure, leggendo oggi qualche retrospettiva, tipo quella del Peduzzi, mi rendo conto che forse, all’epoca, qualcosa mi era sfuggito. Il sistema di combattimento di Nero sembra essere effettivamente più stratificato di quello che ricordavo e, con gli occhi di oggi, le radicali differenza fra i due protagonisti, Nero e Dante, sono effettivamente encomiabili, perché permettono al giocatore di vivere due esperienze di combattimento molto diverse l’una dall’altra, pur rimanendo all’interno degli stessi spazi. E pure le cutscene, riviste oggi, sono godibili. Era dunque un abbaglio, quello preso dieci anni fa? Una svista giustificata dalla pochezza di mezzi conoscitivi? Una mancanza di curiosità nel non approfondire un combat-system che forse nascondeva ben altro? Oppure un parere coerente con quelli che sono sempre stati, anche oggi, i miei gusti in fatto di videogiochi? Il retrogaming, anche quando di mezzo ci sono i poligoni e pochi anni di mezzo, può essere una risposta. Ma, in fondo, preferisco custodire quel ricordo, così radicale, spigoloso e adolescenziale, proprio com’era quello stesso Nero.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Devil May Cry e alle pizze in faccia alla giapponese, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.