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Link's Awakening e la sindrome di Alice

Link's Awakening e la sindrome di Alice

EHI GUARDA UNA MELA

Una fra le sensazioni più bizzarre che si possano provare è quella di infilarsi un cetriolo di mare nella narice; poco sotto, c’è “quando torni alla tua scuola elementare da adulto e tutto ti sembra minuscolo” – a me capita tutte le volte che vado a votare, mi ritrovo ad aggirarmi per queste aule deserte e a misura di nano (inteso come figura tipica del genere fantasy), con banchetti sediette lavagnette e disegnetti alle pareti, gessetti e cessetti e ovviamente scrutatori e scrutatrici perché appunto sono al seggio. È quello che succede quando torni a trovare nonna dopo anni e scopri che l’enorme cassapanca di legno di mogano che ha terrorizzato la tua infanzia è in realtà un comodino IKEA color tristezza. Si chiama “sindrome di Alice quando prende la pastiglina che poi diventa grandissima” e l’ho appena inventata.

AVEVA UNA CASETTA PICCOLINA IN CANADÀ

La sindrome mi ha colpito fortissimo giocando a Link’s Awakening per Switch, un remake in versione bamboline di porcellana di quello che è incontestabilmente il miglior Zelda di sempre (con l’eccezione di qualcuno degli altri), che Nintendo ha droppato ormai qualche settimana fa, dando probabilmente la stura a una cascata di operazioni simili nei prossimi anni (“Oracle of Seasons/Ages entro fine 2020” è quotata meglio di “il Milan quest’anno non retrocede”).

Ora, Link’s Awakening è una di quelle esperienze delle quali è complicato parlare senza aggrapparsi al vissuto e al personale e scadere nell’intimismo da quattro soldi. Almeno per me, voglio dire, è un gioco di ventisei anni fa, e io ventisei anni fa avevo dieci anni e un Game Boy nuovo di zecca, tre Zelda alle spalle e un sacco di tempo libero, ovviamente ho passato le ore con questo bizzarro oggettino che a un certo momento è sostanzialmente trasceso nella mia percezione, è come quando ripeti ad alta voce mille volte molto velocemente la stessa parola, per capirci, a un certo punto diventa semplicemente un suono e alla fine fa parte di te e non te ne libererai mai. E non sono sicuro che la metafora sia efficace, ma quello che voglio dire è che è complicato parlare di un amico d’infanzia con i toni critici e accademici che competono a queste austere pagine.

E quindi, dicevamo: la vecchia scuola elementare. Per questo remake di Link’s Awakening, Nintendo ha scelto di dire addio alla classica divisione della mappa in quadranti e aprire tutto quanto. E persa la segmentazione, l’isola di Koholint si rivela per quello che è: un posto minuscolo, dove tutto è a portata di mano e dove ogni area, regione, zona, chiamatela come volete, si attraversa in cinque secondi netti di orologio. Avere a disposizione un campo visivo più ampio dell’originale modifica radicalmente la percezione dello spazio di gioco, come provo a spiegarvi per immagini. Questo è il villaggio di Mabe nella versione per Game Boy Color:

L’intero villaggio (con l’esclusione, per qualche motivo, del laghetto dove si pesca) copre 12 schermate

Questo è invece il contenuto di una singola schermata:

vista mappa

vista gioco

Questo, invece, è lo stesso luogo nella versione Switch:

Sono un paio di schermate complete, più qualche metà di schermata sopra e sotto. In sostanza, ogni singolo momento di gioco con la versione Switch contiene tra le tre e quattro volte più Link’s Awakening della versione Game Boy.

Ne consegue che il gigantesco e pericolosissimo deserto sia poco più che una vasca di sabbia, tipo quelle che ci sono al parco, dove sicuramente i bambini pisciano spessissimo, e che la palude brulicante di mostri brulica in realtà di due pescetti in croce e quattro piante carnivore. Il terrificante viaggio in compagnia del fantasma, che ti si appiccica addosso e fa versi spaventosi e non ti molla finché non lo riporti a casa e poi a visitare la sua tomba, una sequenza che da bambino mi fece mollare il gioco per qualche giorno perché ero convinto di essere stato maledetto perché avevo sbagliato qualcosa e di dover dunque ricominciare da capo, a rigiocarci oggi, diventa una passeggiata di piacere dal punto A al punto “pochissimo più in là di A”. L’estetica da carillon contribuisce senza dubbio all’effetto, ma la cosa che colpisce davvero è quanto sia tutto così minuscolo, ma anche così denso, per fortuna. Questo, a Link’s Awakening. non lo toglie nessuno: se la filosofia del primo Zelda per NES era “Ogni schermata un segreto”, qui diventa “Dov’è che abbiamo ancora spazio per ficcare roba?”.

BIG
WHITE
COCK

Per converso, rigiocare in età avanzata a questo esperimento di miniaturizzazione aiuta a mettere in prospettiva (o più semplicemente a capire) il lato bizzarro di questo gioco nato per assomigliare il più possibile a Twin Peaks. Non parlo solo del lato estetico, con i suoi gufi che non sono quello che sembrano e i suoi vecchietti timidi che comunicano solo tramite misteriose cabine telefoniche sparse in giro per il mondo. Parlo proprio della qualità quasi esoterica della struttura di gioco e della progressione. Link’s Awakening è un gioco nel quale è impossibile procedere senza un casco di banane ottenuto grazie a una serie di scambi che è facilissimo perdersi, se non si va a guardare dietro ogni angolo; rifarlo oggi, con i ricordi un po’ annebbiati ma ancora validi, non è diverso dal rigiocare a una vecchia avventura Lucas e meravigliarsi di come sia possibile che a dieci anni fossimo riusciti ad azzeccare tutti quei passaggi, data la nostra scarsa conoscenza dell’inglese (OK, volevo dire “io”, non “noi”). Ci vuole coraggio, per costruire un gioco così, soprattutto alla luce della normalizzazione e formalizzazione delle strutture di molti Zelda successivi (sarei estremamente curioso di sapere, per esempio, come sia giocarci oggi per la prima volta senza sapere nulla).

Sul finale e il suo telefonatissimo plot twist (telefonatissimo oggi, al tempo manco capivo bene cosa mi stessero dicendo i mostri), sono sicuro si sia già detto abbastanza – faceva una gran scena e, a livello di puro impatto emotivo, la fa pure oggi che quel genere di trucchetto ha rotto il cazzo da parecchio. Più interessante, da un punto di vista formale, è il finale vero e proprio, la classica “carrellata felice sui posti felici che hai appena liberato dai mostri” virata Thanos, una serie di dissolvenze dolorosissime che sanno tanto di decostruzione e altre parole difficili tipo appunto decostruzione e hanno un valore meta-qualcosa altissimo; interessante perché ovviamente al tempo mica l’avevo vista così ecc ecc. Visto? Alla fine non si scappa dall’intimismo e dal racconto del passato, è il nostro destino, è colpa della nostalgia e di Nintendo e della cultura del riciclo artistico.

Link’s Awakening, comunque, al netto di tutto, è ancora bellissimo.


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