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Tomb Raider e la necessità di cambiare per non morire | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Anche se sono passati tanti anni – ventisette, per la precisione – il fenomeno Tomb Raider me lo ricordo ancora molto bene. Una mattina di inizio ottobre, uscendo da scuola, mi recai in edicola a comprare il nuovo numero di Game Power, che ospitava in copertina il faccione poligonale di Lara Croft.

Quello era il periodo in cui i videogiochi stavano conoscendo una nuova età dell’oro, basti pensare che nel giro di pochi mesi, tra importazione parallela e versioni PAL, nei negozi comparvero titoli come Resident Evil, Tekken 2, Crash Bandicoot, Super Mario 64 e sicuramente qualcos’altro di cui non ricordo. Tomb Raider era qualcosa che ancora non si era visto: un’avventura appassionante e coinvolgente, un mix fatto di ambienti vasti ed esplorabili, trappole, enigmi e salti che richiedevano una precisione millimetrica. Caverne, templi antichi, rovine, bestie feroci come pantere, orsi, coccodrilli, strane creature mutanti e, pensa un po', persino un T-Rex. Molto spesso ci si trovava completamente spaesati, senza sapere cosa fare, mica come adesso che abbiamo mappe dettagliatissime e siamo praticamente presi per mano e portati quasi fino alla fine, se vogliamo. E si poteva salvare solo in determinati punti, dove trovavi un grande cristallo blu. E, dato che si moriva spesso e volentieri, ciò non ci rendeva certo le cose semplici. E poi, una protagonista fuori dal comune: era forse la prima volta che una software house optava per un’eroina femminile e non per un nerboruto esponente del genere maschile. Lara Croft era tosta, e, soprattutto, sexy, qualità sicuramente apprezzata da un pubblico di utenti composto, a quei tempi, al novantanove per cento da soli maschi. Praticamente, una bagnina di Baywatch che impugnava una coppia di pistole. Tomb Raider catalizzò l’attenzione della stampa di settore, tanto che il gioco fu uno dei best seller del Natale 1996. Ma Tomb Raider, non fu solo un gioco, fu molto di più. Lara Croft divenne un’icona pop, finendo su diverse riviste famose, in spot pubblicitari, addirittura nel testo di una canzone. Una vera e propria gallina dalle uova d’oro, aspetto che, purtroppo, influì sul prosieguo delle avventure videoludiche della celebre archeologa inglese. Infatti, dal 1997 in avanti, in concomitanza con il periodo natalizio, ogni anno veniva pubblicato un nuovo capitolo della serie. In buona sostanza, poca spesa e tanta resa: ogni nuovo capitolo differiva dal precedente solo per l’ambientazione, aggiungendo più armi, più veicoli, più nemici. Ogni anno che passava, l’interesse verso Tomb Raider scemava, proprio a causa della poca varietà di un titolo che sembrava non avere più molto da dire. Con la fine del ciclo vitale di PlayStation e l’arrivo di PlayStation 2, sembrava che Lara Croft fosse destinata a terminare la propria corsa: The Angel of Darkness, primo titolo per la console a 128 bit, fu un fiasco totale: il gioco uscì incompleto e buggato per rispettare la data d’uscita, le recensioni lo massacrarono e gli utenti, che avevano rivolto già da tempo i loro sguardi altrove, non sembravano più essere interessati alle avventure della formosa eroina d’oltremanica.

Personalmente, il mio amore per Tomb Raider è nato e morto con il secondo capitolo, tra l’altro uno dei pochissimi videogiochi, all’epoca, ad essere completamente doppiati in italiano. Avevo precedentemente giochicchiato al primo da un amico, per il resto, la mia strada e quella di miss Croft non si sono più incrociate, nemmeno quando la serie sembrava essersi in parte ripresa con i nuovi titoli sviluppati da Crystal Dynamics. Almeno fino al 2013, quando Square Enix, dopo averne acquisito i diritti, ha regalato al mondo un nuovo Tomb Raider.

Mai, come in questo caso, il termine reboot fu più azzeccato. Nessun legame con i giochi precedenti, e, soprattutto, una Lara Croft completamente diversa da quella che tutti eravamo abituati a conoscere. Se la vecchia Lara era un’icona sexy e formosa uscita dal paginone centrale di Playboy, tosta e senza paura, la nuova Lara Croft è una ragazzina inesperta, fragile e impaurita, almeno all’inizio. E, ovviamente, un impianto moderno e al passo con i tempi. Magari ispirato a chi quella strada l’aveva già percorsa da tempo, e con successo. Sì, perché il nuovo Tomb Raider ha preso, e tanto, da Uncharted, prendendone di peso anche alcune situazioni tipo questa che vedete nella foto.

Al di là di questo, oltre al fatto che non c’è nulla né di strano né di scandaloso a copiare un titolo di successo – soprattutto se lo fai bene – delle avventure di Nathan Drake, Tomb Raider cercava di riproporre soprattutto il feeling e le sensazioni generali. Dopo essere naufragata insieme ai suoi compagni d’avventura su una misteriosa isola al largo del Giappone, la nuova Lara, per sopravvivere e acquisire la giusta forza, dovrà imparare un sacco di skill e progredire nelle sue abilità, come in un classico gioco di ruolo, costruendo armi sempre più efficaci. Ci sono i salti, le arrampicate, ma le fasi di platforming dei vecchi titoli sono solo un ricordo. Le fasi di combattimento prediligono spesso un approccio stealth a base di arco e frecce, anche se nulla vieta di affrontarle alla Rambo, anche se la caciaroneria delle sparatorie del titolo Naughty Dog qui non è presente. Anzi, per dirla tutta, rispetto ad Uncharted manca proprio la leggerezza e la sbruffoneria di quel simpaticone di Nathan Drake. In Tomb Raider, Lara non fa altro che ansimare e piagnucolare dall’inizio alla fine, attirandosi anche una certa dose di ironia da parte della community. E le scene di morte, sono così truculente che sembrano essere prese da un survival horror. Ecco, la definizione più calzante per questo nuovo Tomb Raider è, forse, quella di survival adventure. Ironia a parte, la sofferenza di Lara e il suo processo di crescita caratteriale è altamente percepibile, come quando una persona che vive un evento stressante o traumatico si rafforza emotivamente. E, a proposito, ricordo ancora le polemiche per una scena di tentata violenza sessuale, appena accennata, che ha fatto infuriare chi pensa ancora che i videogiochi siano prodotti per bambini o che non possano trattare, nel modo giusto, certi argomenti. Non mancano poi momenti altamente adrenalinici e sezioni scriptate che cercano sì di riproporre il feeling di Uncharted, anche se nulla che non si sia già visto in passato: esplosioni, crolli, cadute, scivoloni e via dicendo.

A dirla tutta, pur avendo le avventure di Nathan Drake nel cuore, ho apprezzato molto di più il nuovo corso di Lara Croft. Perché questo nuovo Tomb Raider l’ho trovato soprattutto bello da esplorare, con ambienti ampi e ricchi di particolari da scoprire, e, soprattutto, ciò che mi ha fatto apprezzare il titolo Square Enix sono state le Tombe, sezioni nascoste a base di enigmi ambientali in cui siamo chiamati a usare la materia grigia per uscirne vivi. E sì, Tomb Raider e i due relativi seguiti sono fra i titoli che più ho amato della scorsa generazione, tant’è che a fine 2021 ho rigiocato proprio il primo Tomb Raider, che avevo originariamente vissuto su PS3, ricomprato in digitale nella sua forma di Definitive Edition al ghiottissimo prezzo di due euro e novantanove centesimi.

A dieci anni dalla pubblicazione del reboot, Tomb Raider è più in forma che mai, e pare proprio che nei prossimi anni Lara Croft sarà protagonista di un vero e proprio universo crossmediale: oltre a un nuovo titolo multipiattaforma distribuito da Amazon, è in sviluppo un nuovo adattamento cinematografico (che non è dato sapere se sia un seguito o meno del film del 2018 con protagonista Alicia Vikander) e una serie TV sviluppata dalla creatrice di Fleabag, Phoebe Waller-Bridge.

Insomma, Lara Croft è rinata a nuova vita, con un cambiamento totale ma necessario per rilanciare le proprie sorti. La Lara Croft degli anni novanta rimarrà un ricordo per chi ha vissuto quel periodo, magari ascoltando Eugenio Finardi che cantava a Sanremo Amami Lara.