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Spoiler!

Ho questo amico che è una cosa fantastica. Nonostante sia parecchio zarro, ha più o meno i miei stessi interessi in ambito videogiochi, film, serie TV e libri, a cui si aggiunge la prestanza mnemonica di un pesce rosso. Insomma, non si ricorda un cazzo, mai, e questo mi consente di raccontargli qualsiasi cosa io abbia visto, giocato o ascoltato prima di lui, senza curarmi minimamente degli spoiler.

Tipo che se gli chiedo: «Hai già visto l’ultima di Game of Thrones», lui mi risponde con tutta la serenità di questo mondo che ancora no, non l’ha vista, «Ma spara pure, tanto ho in ballo un sacco di cose, e ora che riuscirò a guardarla non ricorderò più un cazzo». La cosa bella è che se per caso recupera la puntata già il giorno successivo, si è comunque dimenticato dei miei spoiler.

Capite bene il vantaggio offerto da una disposizione del genere, soprattutto in questo medioevo che azzoppa le conversazioni, tarpa le ali ai voli pindarici e finisce per separare, letteralmente, le persone ai tavoli di una cena a causa degli spoiler.

Ma non è sempre stato così. O, meglio, non è sempre stato così per me, che di carattere detesto le sorprese, desidero conoscere in anticipo il contenuto dei pacchetti regalo, ma ancora di più l’evoluzione di una storia ancora prima che abbia finito di ascoltarla. Ho trascorso metà della mia vita immerso in un’epoca priva, o quasi, di internet, e che dello spoiler se ne fotteva. Con la pressoché unica eccezione dei gialli, ritenuti sacri in via dell’assassino, pure quando non c’era o addirittura quando veniva presentato all’inizio, come ne Il tenente Colombo, negli altri generi era il far west.

Chi si è costruito una carriera scrivendo di cinema o televisione tra gli anni Ottanta e Novanta poteva benissimo sciogliere cinque, seimila battute parlando di trama e personaggi senza colpo ferire. Mica come oggi, che ai critici tocca inventarsi ardite considerazioni sul montaggio, sulla fotografia e sull’equilibrio della scrittura (la parte centrale è sempre la più debole™), pur di glissare sull’identità del cattivo di Spider-Man: Far From Home, o sulla battaglia di Dunkerque, che è finita come è finita.

Tra l’altro, presumo che i lettori di fumetti non avessero poi molti dubbi fin dall’inizio sulle attitudini di Mysterio, e che buona parte degli inglesi, o gli appassionati di storia contemporanea, conoscessero già l’esito della battaglia raccontata da Nolan. Questo punto, oltre ad aprire una riflessione sulle differenze di ricezione di un’opera a seconda del fruitore (senza entrare per forza nel merito della massa critica), non ha impedito, all’indomani dell’uscita di Dunkirk, la circolazione di un sacco di recensioni “Senza spoiler!”.

Ricordo che, quando ero un ragazzino, la distorsione era opposta. Lo spoiler era qualcosa che poteva renderti potente. E non necessariamente in sede di conversazione, per esprimere una qualche supremazia, ma anche solo nella tua testa.

In anni nei quali la messa in onda di una serie TV o di un film veniva dilatata rispetto alla programmazione originale, le riviste campavano sulle anticipazioni e c’erano ossessi che dragavano ogni sorta di pubblicazione per arrivare prima di tutti sulla loro roba preferita. In pratica, il lavoro di spezzatino e analisi che oggi capita di fare sui trailer, all’epoca, veniva dilazionato tra mille testate che baravano deliberatamente sui materiali di riferimento (quasi sempre erano gli stessi per tutti), per rubare quel po’ di attenzione al lettore.

In Caro diario, del 1993, vediamo un amico di Nanni Moretti, Gerardo, che pur avendo scelto di trasferirsi sull’isola di Lipari per evitare il caos e la televisione, tampina un gruppo di americani per carpire informazioni su Beautiful, a dimostrazione che lo spoiler era, in qualche modo, socialmente tollerato. Credo, tra l’altro, che la scena rimandi in qualche modo a Francesco Cossiga, che durante la sua presidenza, approfittava dei viaggi di rappresentanza negli Stati Uniti per fare incetta di spoiler sulle vicende dei Forrester e ridistribuirli in patria.

Spesso capitava pure di entrare in una serie in media res e, in mancanza di servizi on demand e con le repliche alla “vai a sapere”, il recupero di informazioni diventava una necessità, per annodare tutti i fili, nel caso spiegoni o riassunti non sufficienti. Di sicuro, inefficienti lo erano giocoforza riguardo roba come Twin Peaks o, un po’ più tardi, Neon Genesis Evangelion, in cui la conoscenza di tutte le informazioni possibili era necessaria per non uscirne con le ossa rotte.

Bando ai ricordi, esistono un sacco di film/libri/romanzi che guadagnano dal colpo di scena, ma che non appoggiano tutto il loro peso su quella cosa lì. Ne L’impero colpisce ancora, ad esempio, la rivelazione sull’identità di Vader è affascinante, ma lo è soprattutto per la potenza con cui Lucas, Kasdan e Kershner sono riusciti a costruire il passaggio di svelamento. La cosa in sé, non dico sia perfettamente prevedibile, ma viene ammortizzata dal taglio da tragedia popolare del contesto narrativo.

Ci sono anche opere che adoperano il cliffhanger per ingaggiare lo spettatore nella loro costruzione seriale. Nel corso degli ultimi anni, le serie TV hanno in parte raggiunto quello status di evento proprio degli appuntamenti sportivi e, con l’arrivo dei forum, prima, e delle piattaforma social poi, hanno saputo cavalcare il dialogo con gli spettatori per tirare fuori il meglio dalla tensione all’attesa. Cose tipo Lost, The Walking Dead o Game of Thrones, con i loro segreti da svelare, morti da azzeccare e teorie da avallare o abbattere, hanno finito inavvertitamente per spingere al limite l’ansia da spoiler, fino a trasformarla in isteria, allargando conseguentemente il tabù anche verso narrazioni - siano film, serie TV, libri, ma anche videogiochi - che hanno poco o niente a che spartire con il colpo di scena.

Parte della responsabilità va al marketing, parte al pubblico. Resta che ormai, quando si pubblica qualcosa, è impossibile essere accettati dal mondo senza premettere un bel “no spoiler”, anche se si sta scrivendo di una sit-com, di un period drama come Mad Men o di Tetris. Persino se si parla di film d’azione o di menare, che giocano il grosso della loro potenza sulla pura visione del gesto, sul “qui e ora”.

Un esempio di questa isteria: un paio di anni fa, chiacchierando di Stranger Things, mi sono lasciato scappare che, a un certo punto, «Dustin balla con Nancy»”. Non ho specificato quando, ne dove, ne perché. Niente. Eppure mi hanno rinfacciato lo spoiler perché «Ora sto già escludendo delle cose».

Piattaforme di messaggeria istantanea, forum e quant’altro hanno saputo adattarsi presto, escogitando misure anti-spoiler; mentre su Facebook, ogni volta che esce un nuovo film della Marvel (che per carità, OK, ci stanno ci stanno i colpi di scena, i mortacci e tutto, ma insomma) iniziano a partire i post con gli a capo da dieci righe, che mi fanno diventare matto.

Fa riflettere che, nove volte su dieci, questo problema riguardi opere pop che affondano le proprie radici in Shakespeare o nella Grecia dell’Ottavo secolo prima di Cristo, dove le tragedie e i miti che passava il convento erano sempre gli stessi. Tutti sapevano dove sarebbero andati a parare, ma non era importante. L’importante era l’azione del momento. Di nuovo, il qui e ora, che paradossalmente cavava forza dalla ripetizione.

Ora, sarebbe impossibile e fuori luogo riesumare una situazione del genere, né sono interessato a un ritorno, da parte della critica, alla beatificazione della trama a discapito del comparto visivo, ché alla fine, se c’è qualcosa di buono in tutta questa faccenda, è che un sacco di gente che per campare scrive e parla di cinema ha iniziato effettivamente a scrivere e a parlare di cinema. Però, può anche essere mortificante quando un buon racconto viene apprezzato soltanto in via dei colpi di scena, o un articolo è costretto a sacrificare parte della sostanza per paura di entrare troppo nello specifico del contenuto in analisi. Ne va dell’approfondimento.

Chiudo il pippone da vecchio dicendo che, OK, mi rendo conto che la mia fissa sul “datemi tutto il prima possibile” è un tantinello esagerata, oltre che parzialmente dettata dalla paura di crepare prima di essere riuscito a finire il racconto che ho per le mani, per dirla alla Reiner. In realtà, ero partito con l’idea di scrivere de Il sesto senso, film che ho colpevolmente bucato ai tempi dell’uscita in sala e che ho finito per rimandare in continuazione, fino a qualche giorno fa, quando, un po’ per sprezzo, un po’ per capitalizzare sulla Cover Story, ho deciso di guardarlo per la prima volta, pur conoscendone il twist principale. Stra-sicuro che questa evenienza non avrebbe intaccato il piacere della visione. Eh?

Eh niente, non ha funzionato, è stato una merda. Tra l’altro, sono abbastanza sicuro che se lo avessi semplicemente rivisto dopo una prima volta pulita, non sarebbe andata altrettanto male, ché riassaporare uno svelamento è diverso da non averlo mai vissuto. Per dire che insomma, alle volte lo spoiler te lo picchia.

Questo articolo, nonostante tutto, fa parte della Cover Story dedicata a Luigi e ai fantasmi, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.