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One Piece: ridere in faccia al pericolo | Paperback

Paperback è la nostra rubrica in cui parliamo di libri e fumetti non legati al mondo dei videogiochi. Visto che per quelli legati al mondo dei videogiochi c’è quell’altra.

Ci ho messo un po’ a decidere come attaccare questa cosa su One Piece, visto che parliamo di un’opera monumentale, che Eiichirō Oda porta avanti da oltre vent’anni. Mi giravano per la testa un sacco di idee, tra entrate in scena sbruffonissime, robe mitologiche, momenti epici e altri commoventi. A un certo punto, ero quasi sicuro che avrei trovato quello che stavo cercando in giro per la saga di Marineford, quando all’improvviso mi sono ricordato di una scena che, da sola e senza troppi fronzoli, descrive perfettamente l’essenza del manga.

Siamo al capitolo 81, Lacrime, pubblicato nel marzo del 1999 all’apice dell’arco di Arlong. Al centro della scena c’è Nami, che, dopo aver passato infanzia e adolescenza cercando di racimolare la cifra utile a riscattare il suo villaggio dalla tirannia degli uomini pesce, viene ingannata e si ritrova al punto di partenza. Disperata e piena di rabbia, prende un coltello e inizia a lacerarsi il tatuaggio impostogli da Arlong. Dopodiché, succede questo:

Ecco, One Piece sta tutto qui. In un gruppo di eroi a metà tra western e chambara che, all’apice del dramma, sceglie di andare incontro al pericolo senza perdersi d’animo. Anzi, eventualmente sparandosi pure qualche posa e ridendogli in faccia.

Nulla di nuovo in senso assoluto, anzi. Quella del coraggio sfrontato è una nota piuttosto comune agli shonen e ai racconti d’avventura in generale. Per tono, la scena di cui sopra non dista poi troppo da quella, altrettanto celebre, raccontata nel capitolo 224 di Dragon Ball, La rabbia silenziosa, in cui Goku, davanti ai corpi dei compagni caduti, mette in salvo il figlio e tira giù Nappa con un colpo. O dalla prima trasformazione di Gohan in SS2 al cospetto di Cell nel capitolo 408, Gohan furibondo.

Eppure, sempre nell’ottica del fare la punta al cazzo ai cazzi delle pornostar, mi sento di dire che in questo senso, rispetto a Toriyama, Eiichirō Oda ha una marcia in più. Un talento da artificiere nel maneggiare al millimetro la tensione, la capacità di rilasciarla un poco alla volta fino a una deflagrazione che porta l’epica a livelli altissimi. E non importa quante volte siano in minoranza, quante volte vengano abbattuti o quanto a stento si reggano in piedi: Rufy e i suoi si rialzeranno sempre con un “tutto qui?” stampato sulla faccia.

Ecco, per me, al netto del lore, delle tavole zeppe e magnificamente barocche, dei personaggi uno più figo dell’altro, della regia fuori di testa e, insomma, di tutto il resto, One Piece rappresenta soprattutto la quintessenza di quell’epica del sacrificio mista a un chissenefrega che piace tanto ai giapponesi, e che resta una delle pochissime robe che mi fanno scendere lacrimoni. Oggi, come nell’autunno del 2001, quando ho conosciuto la serie ai tempi della prima trasmissione dell’anime su Italia 1.

Pare che l'idea del mondo piratesco di Oda provenga dalla serie animata del 1974 Vicky il vichingo, a sua volta ispirata ai libri dello svedese Runer Jonsson.

A distanza di vent’anni e rotti, si diceva in apertura, l’epopea di Oda non accenna a dare segni di cedimento né avvisaglie di una prossima chiusura. Qualche mese fa, durante un’intervista rilasciata in seno alla promozione del film One Piece: Stampede, l’autore ha ammesso di avere ancora in saccoccia circa cinque anni di storie. Stando all’arco narrativo in corso e a tutte le rivelazione che sono saltate fuori, potrebbero sembrare sufficienti; di contro, ripensando a tutta la carne che è stata buttata sul fuoco tra mitologia e personaggi, sembrano ancora pochi, fermo restando che in una roba così lunga sarebbe pure normale perdere di vista qualcuno o qualcosa semplicemente perché sì, come nella vita.

Se stiamo a guardare i numeri, One Piece è veramente un’opera bigger than life, proprio come i suoi personaggi: con 970 capitoli raccolti in 95 volumetti e rotti, dà serenamente la biada a illustri colleghi più o meno della sua generazione come Naruto (terminato dopo 700 capitoli e una discreta stanca sul finale, se lo chiedete a me), Bleach (686) o Toriko (“solo” 396 capitoli), mentre il re degli shōnen, Dragon Ball, ha all’attivo 519 capitoli pubblicati più o meno nel giro di una decina d’anni (e consumati in Italia in poco più di un paio).

Tra l’altro, Goku, Rufy e Toriko si sono incrociati nel doppio speciale di One Piece intitolato Dream 9 Toriko & One Piece & Dragon Ball Z Super Collaboration Special!!, andato in onda il 7 aprile 2013 su Fuji TV.

Leggo su Wikipedia che One Piece è anche il manga che ha venduto di più al mondo, e che nel 2015 è entrato nel Guinness dei primati per aver infilato il maggior numero di copie pubblicate in una serie disegnata da un singolo autore. Chiaro che i numeri non dicono tutto di un’opera, ma sicuramente sono più che indiziari della sua penetrazione e della sua tenuta, e sotto quest’ultimo aspetto, One Piece costituisce un autentico miracolo soprattutto in un ambito come quello degli shonen, dove la ripetitività è sempre pronta a tirar fiatate sul collo.

Nel corso della serie, Oda ha avuto l’accortezza di dribblare la noia e cambiare il vento quando era ancora in tempo. Le avventure di Monkey D. Rufy partono semplici e spedite con la promessa del tesoro di Roger e il battesimo al sangue di Shanks. Il più classico dei cammini dell’eroe. Tutti i primi archi girano attorno al reclutamento dei vari membri della ciurma, ciascuno dei quali concorre – chi più, chi meno, direttamente o indirettamente – a inserire una tessera nel puzzle di quel mondo regolato da un delicato equilibrio di forze e istituzioni, e appoggiato a una mitologia densissima che a tutt’oggi ha ancora molto da svelare.

Nel primo capitolo del manga, Shanks sacrifica il suo braccio per la nuova generazione.

Dalla formazione del nucleo originale di protagonisti (che, tra parentesi, fa un sacco Lupin III, per quella rima tra ragazza ladra, samurai e pistolero) fino all’entusiasmante spartiacque della saga di Marineford, la struttura narrativa ha favorito un gioco di “pedina contro pedina”, proponendo una ripetizione quasi pedissequa dello schema arrivo/problemi/scioglimento, che si chiudeva sempre con duelli tra personaggi affini.

Poi, da un certo punto in avanti (a naso, direi attorno al capitolo 600), Oda ha iniziato a sparpagliare le pedine in giro per il mondo e a sperimentare con strutture meno geometriche e precisine. A volte imbroccando l’equilibrio giusto, altre sbrodolando un po’ o peccando di caos, ma raramente strappando sbadigli al lettore, sempre per quel suo immenso talento verso la gestione del ritmo. Talento che, a conti fatti, è forse il segreto della longevità del manga nel momento in cui, dalle sequenze d’azione, slitta verso il world bulding e la pianificazione del quadro generale.

Da anni, la trama principale di One Piece viene servita a portate perfettamente distanziate l’una dalle altre, che soddisfano il lettore lasciandogli al contempo quel po’ di appetito che lo spinge ad andare avanti. E che, già lo so, mi spedirà in astinenza quando Oda scriverà la parola fine (sempre ammesso che non finisca prima io).

Una cover art dedicata all'arco del paese di Wa, attualmente in corso.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Febbraio bizarro”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.