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L'insostenibile leggerezza dell'essere Nathan Drake | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Il mio rapporto con le console Microsoft iniziò a incrinarsi molto prima della presentazione di Xbox One-TV-TV-TV, da molti ricordata come uno dei momenti più bassi della storia dell’E3 (se non dell’intrattenimento tutto). Tutti noi volevamo giochi, volevamo rassicurazioni sul futuro delle saghe che avevano fatto grande Xbox 360, e invece trovammo un media center con l’aspetto di un videoregistratore.

Eppure, questa assoluta mancanza di polso da parte di Microsoft riguardo la gestione dei first party andava avanti da un bel po’, ché era già un anno e mezzo che lo scenario di Xbox 360 somigliava al deserto del Gobi, o almeno è così che lo ricordo. Una spasmodica attesa di cose più grandi e importanti che sarebbero venute poi (forse).

La forma delle cose che sarebbero venute: chi dimentica Kinect è complice.

Il mio amato Halo aveva perso la sua magia insieme ai suoi sviluppatori storici (ve ne ho parlato qui), e una sorte simile era toccata a Gears of War, altra saga seminale per ragioni tecniche e narrative.

Cliffy B. aveva mollato per dedicarsi ad altro (e gli andò malissimo), mentre Epic dapprima si era concentrata sul suo nuovo Unreal Engine 4, dopodiché aveva puntato su questo strano sparatutto in terza persona con componenti à la Minecraft chiamato Fortnite, che come sappiamo finì per fare il botto.

Halo 4 era un prodotto debole, schiacciato dalla mole dei suoi predecessori. Gears of War - spin off - Judgement credo nessuno lo ricordi più quando si parla di esclusive, e già questo la dice lunga sul lavoro svolto da People Can Fly, pur reduci del divertente Bulletstorm. A onor del vero non era nemmeno così brutto, perché il taglio era quello solito alleggerito nelle meccaniche; ma dubito che se ne sentisse il bisogno, e in definitiva non mosse una virgola.

Insomma un futuro tutto fuorché roseo, con questi presupposti.

Non ricordo una singola sessione di questo gioco.

Questo, mentre la concorrenza se ne usciva con roba tipo The Last of Us, dichiarando tra le righe che non aveva nessuna intenzione di abbandonare i giocatori durante il tramonto di PlayStation 3.

C’è da dire che nel 2013 era anche cambiato il mio approccio al media; non ero più in balìa degli eventi e avevo iniziato a farmi una nicchia di penne da seguire per avere un quadro della situazione. In più, passo fondamentale per la buona riuscita della mia carriera accademica, avevo iniziato a seguire l’E3. La notte. In diretta.

Basta con le news buttate lì incollando comunicati stampa e trailer da qualcuno che, poveraccio, si era fatto nottata per qualche stronzo pronto a leggere tutto comodamente dal cesso la mattina dopo. Io mi divertivo proprio a vedere come i tizi dell’industria si muovevano sul palco, come gestivano la folla e con che ritmo sparavano gli annunci. Mi piaceva lo show.

Mi piaceva quell’aria da Notte degli Oscar, un misto di frenesia e aspettative che potevano concretizzarsi in un annuncio bomba, o finire in niente.

Ed è subito hype.

Ma non fu solo la presentazione di PlayStation 4 a convincermi. Più che altro, avevo deciso che era arrivato il momento di comare il vuoto più grosso della mia cultura videoludica. Volevo provare Uncharted.

Uncharted ha rappresentato per lungo tempo l’anello finale di una mia personale catena di affetti che nasce con Indiana Jones (a mani basse il professore universitario più figo della storia), e prosegue con Tomb Raider (visto giocare sul PC da mio padre, nel pleistocene) e quel gusto quasi vintage per un certo cinema di avventura in senso stretto, lo stesso che è andato diradandosi assieme alle aree bianche sulle cartine geografiche.

Qui è dove ragiono se cambiare la via vecchia per la nuova.

Le avventure di Nathan Drake hanno per me quel respiro lì, di fughe rocambolesche in stile spielberghiano; di luoghi esotici, templi in rovina e artefatti misteriosi. Il topos della caccia al tesoro.

E queste erano solo le mie aspettative che, va detto, non furono tradite. Recuperai tutti gli Uncharted, e recuperai anche The Last of Us, nonostante l’orticaria che mi causano gli horror. E pur riconoscendo a quest’ultimo una profondità e una consapevolezza maggiori, gli preferivo l’incarnazione scanzonata e cazzona di Nathan.


É una specie di vocazione: goonie una volta, goonie per sempre.

Volendo, è possibile leggere la cosa nell’ottica della fuga costante dai propri obblighi; una narrazione videoludica totalmente escapista , quella di Uncharted, che anziché guardasi in faccia e affrontare la realtà sceglie una via più semplice e, se vogliamo, infantile.

Per quanto il quarto capitolo di Uncharted porti Nathan a fare i conti con una forte maturazione personale e a chiudere con il proprio passato, non c’è quella tensione costante di voler mettere in discussione le azioni del personaggio da parte del giocatore. Nonostante i furti e gli omicidi, il gioco è indulgente con il suo protagonista; le azioni di Nathan non hanno conseguenze e si risolvono nel più hollywoodiano dei finali, quasi a fare da contraltare a quelle di Joel ed Ellie. Per certi versi, il contrasto tra le due opere permette a Naughty Dog di abbracciare tutte le sfumature del suo pubblico.

C’è qualcosa di compiuto, ciclico, nel fatto che la generazione attuale vada a chiudersi con The Last of Us Parte II. Naughty Dog mi ha indirizzato sulla strada di PlayStation 4, e PlayStation 4 è diventata per me la console del rito di passaggio. Con questa macchina ho cambiato modo di giocare, sono diventato più attento rispetto agli elementi di contorno; più in generale, per me, gli anni di questa generazione hanno camminato di pari passo con tutti quegli eventi e traguardi che segnano il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle esclusive, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.