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Riguardare Il piccolo grande mago dei videogames è come tirare fuori un filmino delle vacanze | eXistenZ

eXistenZ è la nostra rubrica in cui si chiacchiera del rapporto fra videogiochi e cinema, infilandoci in mezzo anche po' qualsiasi altra cosa ci passi per la testa e sia anche solo vagamente attinente. Si chiama eXistenZ perché quell'altro film di Cronenberg ce lo siamo bruciato e perché a dirla tutta è questo quello che parla proprio di videogiochi.

Qualche sera fa, subito dopo essermi rivisto Il piccolo grande mago o dei videogames a distanza di parecchi anni dall’ultima volta, sono passato da Letterboxd per mettere le stelline e mi sono imbattuto in un paio di recensioni piuttosto centrate, che agevolo:

La prima è fantastica perché il film, nel suo essere sostanzialmente la versione under 13 di Rain Man incrociato con Il colore dei soldi incrociato con Tommy, parla di due ragazzini e di una ragazzina scappati di casa che girano l’America in autostop per raggiungere il “Video Armageddon”, torneo di videogiochi ospitato dagli Universal Studios a Hollywood. Ora, se decidiamo di glissare sul conduttore cocainomane dalla cravatta improbabile, il peggio che capita al trio è di venire derubato da un paio di pecorari e due tamarrini, di essere sfottuti da un fighetto col Power Glove che nel mondo reale finirebbe seppellito di coppini e di trovarsi alle costole uno sfigatissimo cacciatore di taglie.

Dalla loro, invece, oltre a un’incredibile dose di culo, hanno una brigata padre-figlio vagamente redneck, interpretata da Beau “sono qui solo per i soldi” Bridges e da un Christian Slater fresco di California Skate, occasionalmente affiancata da un camionista afflitto dal vizio del gioco e da un deficit cognitivo, e da una banda di harleysti dal cuore tenero, figli di quello spostamento di costumi che, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, andava celebrando eroi zingari tipo Reno Raines a sfavore del classico fighetto yuppie. Yuppie che qui si chiama Bateman, tra l’altro, solo che ha la faccia di Sam McMurray perché Bale andava ancora alle medie.

Fondamentale l'espressione cringe di Beau Bridges che gioca a Teenage Mutant Ninja Turtles su NES.

Se, al netto del torneo, state pensando cosa ci azzecchi tutto questo background con i videogiochi e, nello specifico, con quelli Nintendo, nell’ottica di un film che doveva essere sostanzialmente uno spottone da novantanove minuti per la casa di Mario e un paio di altri brand tipo Budweiser e Vision, non so darvi torto.

La verità, stando a quando racconta Blake J. Harris nel suo libro Console Wars, è che all’epoca Nintendo America, nella persona del presidente Minoru Arakawa e del suo direttore marketing, William White, aveva accettato di cedere tutti i diritti su marchi, luoghi e filmati a Universal per centomila dollari, fregandosene del controllo sulla pellicola.

Da una parte, quello fu un buon affare. Costato circa sei milioni di dollari, il film ne incassò quasi quattordici e mezzo: niente per cui strapparsi i capelli ma meglio di una pallonata all’inguine. Tuttavia, non trovò l’approvazione della critica, il che finì per fare puzza ai piani alti dell’azienda di Kyoto, nota per il rigore e la qualità dei suoi prodotti, e influenzare il destino della versione cinematografica di Super Mario Bros., sia in termini contrattuali che creativi. Originariamente, infatti, sarebbe dovuto essere una sorta di Rain Man, con Dustin Hoffman nel ruolo di Mario e il premio Oscar Barry Morrow alla sceneggiatura. Il problema è che Il piccolo grande mago dei videogames era praticamente basato sullo stesso concept. Inoltre, a ‘sto giro, Nintendo era partita con l’idea di tenere le redini del progetto. Così, il soggetto di Morrow venne bocciato, Hoffman fu scartato per il ruolo e le cose presero la piega che sappiamo.

Questa.

Tornando al nostro film, pur essendo a digiuno di videogiochi, il regista Todd Holland, oltre alla storia, riuscì a infilare in quell’ora e mezza pezzetti di Super Mario Bros. 2, e 3 (quest’ultimo ancora inedito negli Stati Uniti), R.C. Pro-Am, Mega Man 2, Contra, Double Dragon (“Il doppio drago”), oltre a parecchia altra roba, tutta rigorosamente Nintendo. I coin-op che emergono dallo sfondo sono dei PlayChoice-10, sostanzialmente dei NES ricarrozzati; di tanto in tanto, saltano fuori copie della rivista Nintendo Power, mentre per allenarsi in vista del torneo, i ragazzini ricorrono senza badare a spese al Nintendo Power Line, costoso help desk adibito a trucchi e consigli.

Certo, nel film si vedono anche cose fantascientifiche, come una partecipatissima scena e-sport ante-litteram e commessi viaggiatori ultracinquantenni che giocano convintissimi ai videogame, ma per certi versi non ha torto l’utente di Letterboxd, quando dice che se avevi sette anni nel 1989, Il piccolo grande mago dei videogames era la roba migliore dell’universo.

Il guanto magico è uno sballo (e giù di coppini).

Io, nel 1989, di anni ne avevo già una dozzina, praticamente la stessa età di due degli attori protagonisti: Fred Savage, che nel film si chiama Corey per vincoli di zeitgeist e all’epoca era in ballo col nostalgismo ante-litteram di The Wonder Years, e Jenny Lewis.

In via di questa coincidenza anagrafica e al netto di tutti i limiti del film, mi sono sinceramente goduto il recupero dell’altra sera. L’America de Il piccolo grande mago dei videogames è leggermente diversa da quella di ciniglia di E.T. e dei Goonies, che apparteneva soprattutto ai miei cugini più grandicelli. Nel 1989, io facevo le medie, mi fonavo e mi vestivo come i ragazzini del film, giocavo a quello che giocavano loro e vedevo il mondo più o meno con gli stessi occhi. Magari sarà stata anche la minore storicizzazione della pellicola, vai a sapere, assieme al fatto che nel corso degli anni l’ho rivista pochissime volte, ma ammetto che mi ha preso in contropiede, con quel suo retrogusto di vecchie polaroid e filmini delle vacanze.

In basso a sinistra, un microscopico Tobey Maguire col mullet.

Tra cabine a gettoni, cartine stradali e console che vengono attaccate e funzionano subito (!), passare un’ora e mezza in quel mondo perduto è stato strano, ma uno strano bello. Poi, la cosa del road movie con la famiglia disfunzionale non è male, e al netto dell’evitabilissima baraonda finale in giro per il parco a tema di Universal (che nel 1989 aveva appena aperto i battenti), trovate come Beau Bridges che tifa convintissimo al torneo perché nel corso del film ha imparato ad apprezzare i videogiochi, o le “alette” sulla schiena di Lukas ricavate dal segnanumero spezzato, mi fanno pensare che Holland e lo sceneggiatore David Chisholm un filo ci abbiano creduto, nel film. Sarà anche per quello, ripeto, che a rivederlo mi sono divertito, e in generale non mi è parso poi così peggiore di tanta roba per ragazzi che ho incrociato in vita mia.

Fun Fact: Nel 2016, al PAX West, è stato replicato il set del Video Armageddom.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Febbraio bizarro”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.