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Racconti dall'ospizio #167: Giocatori ed eroi da uno spazio di morte violati

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Non dimentico.

No, io non dimentico.

Non dimentico la prima visione di un reveal trailer spettacolare, immediatamente sottostimato, vanificato, pronto per essere liquidato. La mia smorfia di sufficienza verso quell’action survival-horror sci-fi in terza persona con camera alle spalle decentrata à la Resident Evil 4, ma con possibilità di puntare e sparare camminando. Il pregiudizio verso un publisher facoltoso come Electronic Arts, la puzza di un potenziale adagiarsi sul riciclo di idee e titillanti scopiazzature ludiche varie a rischio (originalità) zero. Dell’associazione religiosa Unitology, della nave spaziale USG Ishimura, del messaggio di aiuto di una donna da salvare o del Male sprigionato dal ritrovamento di un grosso manufatto a doppia elica conosciuto come “Il Marchio” - il quale emanava energie infettanti che inducevano gli esseri umani ad ammazzarsi, così da poter prendere possesso delle loro cellule necrotiche e trasformarli in orrendi mostri… No, davvero, cos’era, tutto questo? Alien? La cosa? Quale possibile altro? In ogni caso, plot masticati e rimasticati per un more of the same annegato nelle idiozie del genere horror, concettualmente plagiante. No, grazie.

Il 2008 era però foriero d’invisibili emanazioni nell’aria. Forse a causa del suo essere bisestile, forse perché l’astrologia cinese decretava la fine dell’anno del Maiale e l’inizio di quello del Topo. O forse perché la sonda Phoenix Mars Lander atterrava su Marte, dove poi veniva trovata l’acqua. Di certo v’era il fiorire tecnoludico del ciclo generazionale di PlayStation 3 e Xbox 360, qualcosa di bioritmico e tecnologico in progress che confermava l’ottimo nel vecchio ma prometteva il sublime nel nuovo. Venivano quindi giustificati i ritorni, i richiami al trascorso, fossero pure un more of the same nutrito di una qual certa morbosità, se si parla di videogioco. Di questa disposizione psicoludica era complice lo studio EA Redwood Shores – poi Visceral Games - che decideva di dare forma ad un brand da cui sarebbero fiottati film d’animazione (Dead Space: La forza oscura e Dead Space: Aftermath), romanzi (Dead Space: Catalyst e Dead Space: Martyr), un buon fumetto fisico (Dead Space: Salvage) e uno pessimo digitale accompagnato da mini-giochi praticamente trascurabili (Dead Space: Ignition). Tralasciando le poche altre cose qui non riportate, v’era anche un prequel per Nintendo Wii con un’anima FPS sui binari e visuale libera limitata (Dead Space: Extraction). Erano gli anni in cui la potenza di Electronic Arts era capace di ficcarla in gola a forza per un lustro intero, la trilogia di Dead Space. Una IP che tentava di espandere il possibile ecosistema mediale del videogioco attraverso propaggini espressive tese a forzare, e sotto certi aspetti stuprare il dicibile riguardo al survival horror sci-fi. “Il Marchio”, così infernale e contagiante, finiva così per infettare l’ambiente crossmediale, ampliando i plot di una storia che girava su se stessa in modo stolido, ridondante.

Malgrado tutto, io non dimentico. No, io non dimentico quel patologico gameworld, il Sé-ludico e perverso del giocatore che riemergeva galvanizzato e al contempo ripugnato da uno spazio affogato in un orrore violento, malato. Non dimentico le urlanti aberrazioni semi-umane che si scagliavano verso, gli smembramenti, i suoni agghiaccianti prodotti da un tremendo inferno sci-fi impossibile da raccontare. Se chiudo gli occhi adesso, sento ancora la ruggine, il cuoio color terra sporca e gli arancio bruniti e metallizzati della tuta di lavoro di un ingegnere minerario spaziale nel 2508. Sento la claustrofobia d’essere come all’interno di uno scafandro di trenta chili attraversato da listelli protettivi e rinforzati in metallo, le ginocchiere in acciaio. Ultimo campo di terrore, la testa racchiusa in un elmo-visore color rame, a soffocare il respiro, ovattare i lamenti di dolore, a rendere roco e strozzato il suono della voce di questo Isaac Clarke, un volto tenuto nascosto e sconosciuto durante tutte le interazioni di gioco, un ignoto che fronteggia l’inferno senza esprimersi né proferire parola mai. La transizione dal Sé-ludico all’“Io” del avatar-giocatore si faceva così totale, terrorizzante. Era nell’inquietudine e nell’orrore che si diventava Isaac Clarke.

Io non dimentico. No, non dimentico la sfrontatezza delle sue morti, declinazioni ancora più becere e violente di quelle sfoggiate solo tre anni prima da un Resident Evil 4 che, attraverso il cinismo di un irriducibile Shinji Mikami, aveva stravolto, sputato in faccia e pesantemente violato qualcosa sino ad allora ritenuto irrappresentabile: la sacra integrità fisica dell’eroe di un videogioco. Polverizzando le vecchie texture traballanti che lo avvolgevano in Resident Evil 2, s’era trasformato in un affascinante quanto atletico ragazzo, il Leon Kennedy di Resident Evil 4. Un eroe giusto e moralmente buono, all’interno di una esperienza oltremodo estetica, in cui Schifo e Bellezza, Aberrazione e Candore felicemente comunicavano. “Si può vedere morire l'eroe molto male, nel videogioco” avevo constatato raccapricciato tre anni prima - televisore CRT acceso e pad del GameCube in mano - al cospetto dei suoi Game Over traumatizzanti. Perché davvero non c’erano mai stati Game Over così scioccanti, per il giocatore di videogiochi. Così come non ci sarebbero più stati eroi bellissimi fisicamente inviolabili – come persino Lara Croft avrebbe poi insegnato - dopo Leon in Resident Evil 4. Nel momento in cui lo si sentiva urlare di dolore, inforcato dai Ganados, segato nelle ossa e nelle carni dal Dr. Salvador, sbalestrato e spezzato da El Gigante, schizzato in viso dal rigurgito d’acido dei Novistador, penetrato da frecce e schegge e proiettili e grumi taglienti di rocce… Nel vederlo spezzato in due, le budella riversate fuori, con gli artigli in faccia, schiacciato sotto un masso, squagliato nell’acido, rozzamente decapitato, il sangue che allagava la scena dopo il passaggio dei laser fra le sue carni, dopo il morso terrificante di un Regenerador, coi suoi denti-aghi a lacerargli tessuti e strappargli tendini, arterie e carne… ecco che s’avvertiva qualcosa di assimilabile all’assenza di qualsiasi speranza, rispetto alla retorica delle precedenti istanze proiettive ingenerate da un videogioco. Il realismo estetico di un Leon Kennedy violato e deturpato esprimeva il disrispetto verso l’ego solitamente proiettato nell’avatar da parte del giocatore. La violenza delle sue morti erano la derisione del rapporto proiettivo superomistico e galvanizzato ch’era possibile stabilire col proprio avatar. La cruenza dei game over di Resident Evil 4 conduceva ad un Tempo degli Eroi ormai tramontato.

Poca rilevanza, in Dead Space, aveva il possedere un Disc Ripper, un Plasma Cutter alimentato a gas ionico o un Pulse Rifle a bobine, entrambi con doppia modalità di fuoco. Poca importanza l’abilità di un’armatura RIG comprensiva di moduli di telecinesi o di stasi per congestionare temporaneamente i necromorfi e farli meglio a pezzi, smembrarli. Poca importanza l’assenza di un HUD, la presenza degli indicatori fluorescenti di salute apposti sulla colonna vertebrale o le munizioni restanti direttamente leggibili sull’arma impugnata. Nemmeno il riflessore digitale posto sul suo petto, che proiettava ogni comunicazione diegetica in fasci di luce in realtà aumentata, era cosa che importava. Isaac Clarke non si attestava solo quale muto anti-eroe, ma crepava con un tale raccapriccio e orrore da massacrare in modo definitivo ogni possibile contegno egotico del giocatore.

Questo raccapriccio è ciò che più ricordo dopo dieci anni di Dead Space. Assieme allo splendore oscuro di un landscape sonoro multiforme e stratificato, rorido di effetti e stratagemmi di registrazione che delineavano un sound design allo stato dell’arte. Stoviglie che cadono a terra e droni a bassa frequenza costante quali miscele che animavano di terrore le paratie metalliche della USG Ishimura. Sound designer che registravano il pianto della propria bimba in fasce per poi mischiarlo a suoni gutturali modulati ed equalizzati al fine di restituire il terrificante paciugo di voci dei necromorfi, di feti marchiati dal Male, di esseri inviati dall’inferno per un ritorno all’unità mistica del Tutto attraverso una Convergenza finale. Un meraviglioso soundscape psicologico, quello di Dead Space, sporcato solo dalla partecipazione al doppiaggio italiano di un Dario Argento viziato da un’inflessione romana di un impacciato e un impastato da far sanguinare l’anima. A dieci anni dalla sua pubblicazione, resta in me una coscienza certa e imperdonabile: quella d’aver voluto giocare con un orrore esiziale, con cui forse non andava empatizzato. Un qualcosa che sarebbe rimasto poi come una febbre, una eco, un tormento lontano, la memoria di uno spazio ludico da uno spazio morto violato. Un “marchio” che ancora oggi avvolge l’inconscio come un perverso e patologico richiamo al quale non si vuol dare più ascolto, ma di cui al tempo proprio non si riusciva a sfuggirne l’abbraccio.

Se volete ascoltarci mentre chiacchieriamo di Dead Space in tutte le sue forme, potete recuperare il vecchio Outcast Monografie dedicato alla serie. Come al solito, se acquistate la roba segnalata nel pezzo (o qualsiasi altra cosa) su Amazon passando dai seguenti link, una piccola percentuale di quello che spendete andrà a noi, senza alcun sovrapprezzo per voi. Se volete procedere su Amazon Italia dirigetevi qui, se preferite Amazon UK puntate qui.