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Da Shark Jaws a Stranger Things: speranze, gioie, ansie e disastri dei giochi su licenza

Narra la leggenda che il primo videogioco “su licenza” della storia sia Shark Jaws, del 1975. Le virgolette sono d’obbligo, perché Nolan Bushnell, allora capo supremo di Atari, provò ad ottenere la licenza ufficiale di Jaws (Lo squalo) da Universal Pictures ma non ci riuscì. Decise allora di fare il furbo e mise comunque in produzione un gioco in cui si controllava un sub impegnato a pescare pesciolini ed evitare che un grande squalo bianco faccia colazione di lui. Intitolò il gioco, appunto, Shark Jaws, ma sul cabinato scrisse la prima parola piccolissima, per far risaltare la seconda. E, nel dubbio, fondò una nuova etichetta secondaria di nome Horror Games (oltre alla già esistente Kee Games) tramite cui pubblicare il gioco, per proteggersi da eventuali cause giudiziarie. Piazzò circa duemila unità di Shark Jaws e da lì ebbe inizio il fenomeno dei videogiochi su licenza (cinematografica e non), dalla popolarità ed efficacia variabile, ma quasi sempre enorme, per i decenni a venire.

Negli anni Ottanta e nei primi Novanta, in particolare, i videogiochi su licenza iniziarono a fioccare come funghi in ogni direzione, fra cabinati di livello assoluto (come dimenticare lo Star Wars originale), e sperimentazioni “casalinghe” sempre più lanciate. Se una fra le licenze più popolari, prolifiche e di successo del periodo fu quella di RoboCop, andò anche oltre quella legata a Batman, il supereroe oscuro DC Comics che, del resto, poteva vantare una popolarità più “a lungo termine”. I giochi di qualità ispirati ai fumetti e, successivamente, alle incarnazioni cinematografiche del pipistrellone furono tantissimi e continuano ad esserli ancora oggi, in una catena del bene che va dalla mitica avventura isometrica di Jon Ritman sui computer a 8 bit ai recenti Arkham, con nel mezzo cosette tipo il Batman per NES, il delizioso Batman: The Brave and the Bold per Wii e 3DS e tanto altro ancora che così, a memoria, non mi viene in mente. Certo, si sono viste anche porcherie, tipo quella robaccia di Batman Begins, ma se ne facciamo una questione di qualità media, Batman sta lì in cima nell’olimpo dei tie-in.

Fra i videogiochi dedicati al pipistrellone ce ne furono alcuni, molto importanti pubblicati da Ocean Software. Per esempio, il Batman a otto bit citato sopra e il successivo Batman: The Caped Crusader, ma soprattutto il Batman: The Movie uscito nel 1989, ispirato al film di Tim Burton e pubblicato, ovviamente, su ogni formato possibile e immaginabile. La versione Amiga, in particolare, fu significativa per due motivi. Il primo è che si trattava di un gioco davvero bello e curato, che lasciava in particolare di stucco per la spettacolarità delle sequenze a bordo della batmobile. Il secondo è che Ocean e Commodore decisero di piazzarlo in bundle con l’Amiga 500, secondo una mossa che si rivelò particolarmente azzeccata.

Ocean Software, per altro, sulla forza delle sue licenze ci costruì gran parte della propria fortuna, nel bene e nel male. Intendiamoci, dal publisher britannico arrivavano anche giochi originali, roba di qualità altissima come Head Over Heels, i due Match Day, Combat School o i vari titoli sviluppati da Digital Image Design (uno studio specializzato in simulatori di volo, che però ci regalò anche la doppietta di shooter interstellari Epic/Inferno e l’ambiziosissimo FPS pre-FPS Robocop 3, prima di un esodo dei membri fondamentali, che andarono a fondare Evolution Studios). Però, le licenze fecero da elemento chiave per la costruzione di un impero dominante nel corso degli anni Ottanta e Novanta, al fianco di U.S. Gold, sia per quanto riguarda le conversioni di coin-op, sia per gli adattamenti di marchi famosi. E la qualità saettava in ogni direzione, fra lavori pregevolissimi (i citati Batman, per esempio, Rainbow Island per menzionare una conversione da arcade) e tante produzioni a dir poco pessime, messe in fila una dietro l’altra per far cassa facile.

D’altra parte, non era neanche facile. Lavorare a un adattamento cinematografico, da un lato, era senza dubbio stimolante, vuoi per il fascino del materiale, vuoi perché permetteva l’accesso in anticipo alle sceneggiature, magari visite ai set, approfondimenti inaccessibili e capaci di mandare in brodo di giuggiole uno sviluppatore cinefilo. Dall’altro, le tempistiche erano quasi sempre insensate e ci si ritrovava, nel migliore dei casi, a dover produrre un gioco fatto e finito con a disposizione molto meno tempo del necessario, per poter uscire in contemporanea al film e cavalcarne il successo. Questo aspetto, ovviamente, batteva ogni altra considerazione, anche perché i soldi spesi per assicurarsi la licenza di turno andavano fatti fruttare. Aggiungiamoci le varie limitazioni che talvolta venivano imposte sul piano dello sfruttamento dell’immagine, dei temi e della fantasia, e si comincia a capire come mai, spesso, venissero fuori delle porcherie frettolose, figlie magari anche di un design pigro, che risolveva il dilemma insito nel tradurre un film in videogioco buttandola sul multievento. Non andava sempre male e capitavano gemme insospettabili, ma era veramente dura e, nei casi più clamorosi, si finiva in disastri tipo quello di E.T. the Extra-Terrestrial.

Nel bene e nel male, comunque, i videogiochi su licenza hanno costituito una fetta importante dei primi due o tre decenni di videogioco e hanno comunque dato vita anche a giochi memorabili, quando non a capolavori indiscussi. Dal Ghostbusters di David Crane a quello – delizioso – uscito su Mega Drive nel 1990, o i tanti adattamenti più o meno riusciti di vari fumetti Marvel, tanto quelli “casalinghi” quanto quelli portati in sala giochi da Capcom, le due avventure grafiche di Indiana Jones e la serie di X-Wing, certi giochi di Star Trek, i platform game disneyani, quel capolavorone di I Have No Mouth And I Must Scream, la manciata di gioielli da pescare fra le decine di giochi (brutti) ispirati a manga e anime di successo… potrei andare avanti senza fine ma la sostanza rimane quella: tante delusioni ci abituarono a pensare ai giochi su licenza come porcherie insalvabili, messe assieme in fretta e furia e buttate fuori per far cassa. In larga misura, avevamo ragione, ma non è tutta merda quel che puzza.

E d’altra parte il fascino di un gioco su licenza è innegabile: il gusto di poter controllare in prima persona l’eroe di un film, un fumetto, un libro, il piacere di esplorare versioni digitali di ambientazioni che abbiamo amato, il senso di meraviglia dato da quei piccoli momenti che riescono a riprodurre in maniera azzeccata passaggi significativi di un film. Non ci si può fare nulla: quando hai amato un film, vederlo rielaborato con attenzione è divertente. Sarà poca cosa, ma quel momento in cui Batman Returns per Super Nintendo, un picchiaduro a scorrimento tutt’altro che eccezionale, ti permetteva di abbattere un nemico colpendo il muro alle sue spalle col rampino e tirandogli l’intonaco sulla capoccia, riproducendo alla perfezione una scena del film, mi fece gasare. Ero un animo semplice, che vi devo dire.

Del resto gli animi semplici non erano e non sono pochi, se è vero – e lo è – che il mercato, per tanto, tanto tempo, sostenne questo tipo di produzioni. Le cose iniziarono a cambiare verso la fine degli anni Novanta, con quel mutamento deflagrante del mercato che, fra le altre cose, fece quasi piazza pulita dei publisher e sviluppatori britannici, trascinando nel gorgo anche delle Ocean e U.S. Gold incapaci di adattarsi. Il cambiamento non fu immediato e per parecchio tempo si continuò a marciare su percorsi noti, fra adattamenti frettolosi di film in uscita, operazioni magari più ambiziose ma non per questo particolarmente riuscite come quelle legate a Matrix e, di nuovo, gli adattamenti slegati da tempistiche precise, che tipicamente regalavano i risultati migliori (ho già citato la serie di Arkham, ma vengono in mente anche Chronicles of Riddick e i due The Darkness). Di sicuro, però, con l’aumento esponenziale dei budget e delle risorse umane e temporali necessarie per la produzione di giochi tripla A, lo scenario cambiò radicalmente.

Ai tempi degli otto e, soprattutto, sedici bit, sei mesi per sviluppare un gioco su licenza potevano già iniziare ad essere pochi, ma permettevano comunque di tirar fuori prodotti che, a un livello superficiale, facevano una figura dignitosa. Mano a mano che le generazioni sono andate avanti, però, l’impresa si è fatta impossibile, con studi di sviluppo schiacciati fra la pressione della licenza, il budget comunque rosicchiato dall’acquisto della stessa e le tempistiche infami. Tolti alcuni casi di investimenti più ambiziosi e significativi (penso ad almeno una parte dei giochi legati alla trilogia tolkeniana di Peter Jackson) e inserendo in una categoria a parte quei titoli che rielaboravano la licenza in chiave diversa (per esempio i giochi di strategia ambientati in luoghi cinematografici), il classico action game ispirato al film divenne un genere di produzione sempre meno sostenibile. Titoli schiacciati sempre più nella pressa di fascia media, fra i cosiddetti “doppia A” che un tempo erano la culla della creatività da grossa produzione ma pian piano stavano sparendo, spazzati via da un mercato che solo diversi anni dopo li avrebbe riproposti, passando dalla porta di servizio della scena indie. Pur, di nuovo, con determinate eccezioni, i videogiochi su licenza erano sempre più la pecora nera del settore, investimenti d’alto profilo che solo in parte venivano veicolati nella produzione effettiva, dando vita a giochi ben sotto al livello della decenza. La progressione dal citato Batman Begins a Terminator Salvation e infine a quella monnezza sesquipedale di Iron Man 2 è agghiacciante, roba da snuff movie. L’apparente scomparsa di questo genere di operazioni, con tanto di progetti d’alto profilo abortiti, come quello dedicato agli Avengers, era forse inevitabile.

Ma di apparenza si tratta, perché i giochi su licenza hanno fatto il giro e sono tornati alle origini. Oggi, e ormai da diversi anni, se vuoi accompagnare un film in uscita con un videogioco, non ha veramente senso lanciarsi nella produzione di un blockbuster d’altissimo profilo. Ci manca poco che scompaiano quelli “seri”, figuriamoci quelli “opportunistici”. Il campo di battaglia per questo genere di operazioni si è spostato su smartphone e tablet, dove lo sviluppo di un videogioco può per certi versi essere accostabile a come funzionava trent’anni fa. I tempi snelli necessari per accompagnare l’uscita al cinema sono gestibili, l’investimento richiesto è accettabilissimo e, bonus, si parla di un settore in cui, se vuoi limitare lo sforzo creativo, hai a disposizione gli eredi spirituali del multievento: basta appoggiarti su modelli consolidati come quelli degli endless runner o dei match three e hai svoltato. Poi, certo, ogni tanto si vede qualcosa di più curato, o con alle spalle un minimo di sforzo aggiuntivo, ma si tratta di casi isolati e, soprattutto, di giochi finalmente capaci di sfuggire all’equivoco che ha sempre perseguitato il filone delle licenze “alimentari”.

Limitati al contesto delle piattaforme mobili, spesso proposti secondo il modello free to play, finiscono dritti nelle librerie digitali del loro target di riferimento, videogiocatori molto poco hardcore, attirati dalla licenza, che si fanno volentieri una partitina ma finisce lì. Critica e pubblico di appassionati esigenti possono ignorarli, non si accorgono nemmeno della loro esistenza e tirano dritti in attesa di un nuovo Arkham o Mordor a cui aggrapparsi (o magari The Mummy Demastered di WayForward, che sembra essere davvero bello pur non avendo rinunciato più di tanto al “tempismo”). Nel mezzo, ogni tanto si manifesta qualcosa di trasversale, che può andare a pescare in ogni fascia di pubblico. È probabilmente il caso di Stranger Things: The Game, manifestatosi dal nulla a inizio ottobre e piuttosto sorprendente nella sua buona qualità. Intendiamoci: è ben lungi dall’essere un capolavoro e si limita a sfruttare la sua licenza in maniera intelligente e accattivante per il pubblico della serie TV. È però un’avventura retrò magari lievemente monotona nella struttura, ma curata, con un bel taglio audiovisivo, una certa attenzione nel design dei livelli e nella differenziazione dei personaggi (con abilità diverse che aprono l’accesso alle varie zone della mappa) e quel pizzico di segreti da sbloccare (tipo un trailer esteso, ovviamente ora reperibile su YouTube) che può aumentarne la longevità. Considerando che è gratuito e non spinge minimamente sugli acquisti in app, beh, si sono viste manovre pubblicitarie ben peggiori.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo. Se vi intriga la storia di Ocean e U.S. Gold, sappiate che ho scritto dei libri ad essa dedicati a quest'altro indirizzo. Se vi intrippate coi videogiochi su licenza, non perdetevi (SPOILER) la Cover Story di novembre!