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Giocando a Scramble con un amico perduto | Racconti dall'ospizio

Giocando a Scramble con un amico perduto | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Lo chiarisco subito: il titolo è fuorviante. Potrebbe far pensare a una storia montenegrina (nel senso dell’Amaro Montenegro) di un amico perduto, e poi ritrovato, magari con la complicità galeotta di Scramble, il classico arcade prodotto da Konami nel 1981.

Ah! Sono bravo a scrivere quel tipo di storie! Scaldo il cuore. Anche se quello che scalda il cuore è in effetti l’Amaro Averna e non il Montegro. Il “gusto pieno della vita”, non il “sapore vero”. Certo che per venderti degli amari industriali scomodano concetti emotivamente impegnativi, eh!

Però insomma, no, questo non è l’archetipo narrativo dell’amico perduto-e-ritrovato. Il titolo, a espanderlo, verrebbe “Giocando a Scramble con un amico, che poi ho perduto”, però suona un po’ meh, anche perché il gerundio è un tempo un po’ del menga. “Giocando” QUANDO?

Ecco, partiamo da lì. Eravamo a metà del 1996. Non ero ancora laureato, ma non ero nemmeno più matricola. Ero nel bel mezzo del cammin ma insomma, ormai avevo l’attitudine rilassata di chi aveva capito come si studia, e sì ogni esame che patema e che drama, però la strada grosso modo era segnata. Bologna era un posto stimolante - tutti si lamentavano di come non fosse nemmeno lontanamente stimolante come negli anni Settanta, ma insomma, non era male. (Facile che negli anni 2010 a Bologna tutti si lamentassero di quanto fosse stimolante negli anni Novanta und so weiter und so fort forever and ever). Ero al punto in cui avevo una discreta conoscenza delle vie di Bologna, un discreto numero di amici a Bologna, un discreto numero di casini sentimentali e uno sconcertante monte ore speso in tutti i laboratori universitari di informatica della città. Sapete, per quel fatto della droga. La più potente droga degli anni Novanta. Internet. Internet sparata nelle sinapsi alle velocità smodate offerte dai computer sulla dorsale universitaria europea che non so cosa fosse, ma ricordo ancora lo shock di scaricare a 600k al secondo le sigle di Maison Ikkoku formato video 640x480. Un sorriso, e ho visto la mia fine sul mio viso. Riflesso nel CRT.

Ho già avuto modo di menzionare qui su Outcast la mia vita da scroccone informatico, in particolare in relazione al MAME. Ma prima ancora del MAME – che a metà 1996 non esisteva – c’erano altri modi per giocare le vecchie glorie da sala giochi. Nella fattispecie c’era questo emulatore programmato in linguaggio Assembler, inizialmente noto come DASArcade. A me suonava – e suona – ancora sostanzialmente crucco “Ja, Ich bin im das arcade! Die Huren werden in fünf Minuten mit Drogen ankommen!“ ma DAS erano le iniziali di Dave Alan Spicer, l’autore. Un anno prima del MAME, DASArcade mandava la classica manciata iniziale di arcade imprescindibili – e li faceva girare su 486 al 100% della velocità, cosa che MAME non avrebbe mai saputo fare, programmato com’era in C. E sì, tra questi giochi c’era anche Scramble.

Il problema era reperirlo, DASArcade. Il topic era caldissimo. Vabbe’ emulazione otto bit assortita, wow mamma guarda l’emulatore Spectrum eccetera, ma DASArcade ti prometteva di giocare the real thing, la robba da sala giochi, non delle tiepide conversioni o della palta riprogrammata male. E ti permetteva di giocarlo su una macchina “normale“, non per forza sul Pentium-che-ancora-non-avevi. Tempo zero, c’erano siti che, nonostante i precisi disclaimer di Spicer, distribuivano l’emulatore assieme alle ROM, un no-no allora come ora. Tempo uno, c’erano siti che distribuivano l’emulatore assieme alle ROM facendosi pagare per un lavoro doppiamente non loro.

Spicer, con la romantica ma comprensibile (per il 1996) idea di controllare l’Internet, tolse DASArcade dal suo sito e minacciò tutti gli altri: togliete DASArcade o smetto di svilupparlo.

Be’, la gente andò parecchio in sbatta. La piccola ma rorida comunità degli emulanti si divise in due frange – gli Invisibili, che si lamentavano su canali IRC privati senza far troppo rumore “sennò Spicer s’incazza” e i Rompicazzus, che sbottavano in cori di vibrante protesta come cicale nel cuore dell’estate. Invisibili e Rompicazzus in ogni caso erano super lamerosissimi, e dragavano l’Internet più deep deep deep che c’è – a un canale di distanza da quelli che ti spacciavano foto di gente morta segata in due dal Brucomela – alla ricerca dell’eseguibile di DASArcade.

Non vi annoierò oltre con dettagli tipo se io fossi tra gli Invisibili o i Rompicazzus, fatto sta che, tramite loschi giri, BBS, IRC e quant’altro riuscii a mettere le mani su DASArcade. Gaudio durissimo! Uscii dal laboratorio informatico di Scienze Statistiche – manco sapevo bene cosa fosse, ero umanista io! - ma grazie, amici della Statistica. Il floppy era ancora caldo caldo, appena sfornato. Il mio cuore batteva fortissimo. Non potevo arrivare fino a casa, significava attraversare tutti quei portici, tutta quella Bologna, faceva caldo, troppo caldo, ed era quasi ora di pranzo. Strisciando all’ombra del fanciullo non proprio in fiore che io stesso proiettavo, mi srotolai scioglievole fino alla casa di alcuni amici miei, poche centinaia di metri lì vicino.

Questa cosa cosa di piombare a casa della gente alla cazzo senza nemmeno avvertire. Che roba che era! Normale perché studenti, normale perché a Bologna, normale perché anni Novanta. Non c’erano i cellulari, o forse anche c’erano eccome ma non nella mia cerchia, o forse metà dei miei amici ce li avevano ma io ero nella metà senza e pertanto mi pareva che non esistessero.

Insomma: ding dong.

Mi aprì la morosa del mio amico, una ragazza in carne che emanava una sensualità che verrebbe facile dire che derivava dalla sua carnalità, ma in realtà derivava dal fatto che cantava benissimo, era brillante, era intelligente, e inoltre controllava con grande ironia la propria sensualità, contenendola con estrema parsimonia, al tempo stesso non risultando né frenata né castigata. Il che la rendeva per l’appunto ancora più sensuale, in un gioco di scatole sensuali che non sarebbe finito più se non fosse che era la morosa del mio amico, e quindi dai, non si fanno questi pensieri sulla morosa del tuo amico, e questa curiosa ricetta funzionava perfettamente.

Sopraggiunse testé lui, l’amico, che in questo racconto chiamerò: l’amico. A riprova di ciò, si dimostrò una volta di più estremamente amichevole, in un modo che mi metteva istantaneamente a mio agio. Intendiamoci, era un tipo stranissimo, pieno di tic, pieno di manie. Era ovvio che mi mettesse a mio agio! Suonava la chitarra, parlava di buzuki, mi passava le cassettine con dentro roba che io non avevo mai sentito prima tipo Michael Hedges e mi piaceva sempre tutto tantissimo. Era più grande di me, ma tipo dieci anni più grande, conosciuto per caso tramite amicizie comuni e poi diventato amico perché amico mio e non necessariamente delle amicizie comuni. Era simpatico perché sapeva un sacco di cose senza menarsela, e mi trasmetteva secchiate di conoscenza senza farle cadere dall’alto. Apprezzava il mio chitarrismo senza chiedermi di essere un chitarrista seriamente bravo tipo lui. Mi passava i libri dell’Arcana Edizioni senza chiedermeli mai indietro, e infatti non glieli ho mai ritornati (ma a onor del vero li ho poi a mia volta prestati e mai riavuti, e chissà che bel viaggio si stanno facendo). Era un Cristo dei Nerd, sapeva programmare, credo avesse scritto un simulatore di mah-jong o qualcosa del genere. Però eravamo molto sul discorso musicale, un po’ anche su quello spirituale che è una cosa che ora fa un po’ difficile parlarne, perché oggi come oggi sembra che o stai bello in fissa con qualche deriva settaria, tipo chessò la religione, oppure prendi nettamente le distanze da quel genere di cose e riponi la tua fede nella scienza agnostica. Le idee erano fluide. Forse se hai ventidue anni e sei a Bologna è esattamente lo stesso anche adesso. Forse la chiave è essere giovani, studenti universitari e/o a Bologna. O a Gubbio. O a Staranzano. Forse mi sembra un mondo lontanissimo solo perché, nel tempo, lo è. Amico perduto.

L’amico – allora per niente perduto, anzi, guarda, ero proprio nel suo salotto che fumavo una Diana blu, e insomma per una volta il discorso non va sulla musica, o sui libri della Urania o insomma quella roba lì, ma va sul fatto che continuavo a stringere tra le mani quel floppy come se dentro ci fosse stata la domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto (visto che la risposta era ed è ben nota). In comodo formato .txt, magari.

E no, amico, qui c’è un emulatore. Emulatore? Mi fa lui. Mi è capitato di usarne, all’Università, c’erano questi vecchi dati di un mainframe e… No, no, dico io, è un emulatore di giochi da sala giochi.

Ecco, la ricordo bene la sua faccia. Lo stupore che scolorò le sue gote scavate e pallide. Ah, se conoscevo quella sensazione – era la stessa che avevo provato qualche mese prima nello scoprire che si potessero emulare i giochi da sala. Diamine, chissà cosa c’era dentro i cabinati, mica una motherboard, c’era sicuramente la MAGIA! Questo era stato il mio approccio umanistico. Il suo, invece, da Cristo dei Nerd, era molto più pragmatico, lo stupore era tutto sul ma certo, in fondo cosa ci sarà stato dentro un gioco da sala, un processore Z80 magari o…

Vedevo le rotelline dell’amico viaggiare velocissime, più veloci delle parole – in questi casi aveva un leggero balbettio – ma intanto aveva inquadrato la questione molto meglio di quanto io avessi fatto fino a quel punto. E lo disse.

“Ma qui-qui-quindi potresti farmi rigiocare adesso sul PC di là in camera a roba tipo Scramble?”

Disse Scramble. Avrebbe potuto dire Amidar, Frogger, Pac-Man, Centipede e altra roba emulata dal DASArcade, ma disse proprio Scramble. Chiese di Scramble.

“Non roba tipo Scramble. Scramble Scramble. Lui. Esso”.

Di colpo serio, con quello sguardo maniacale che adoro nella gente che sa che scimmia ha sulla spalla.

“Andiamo in camera ora.”

Vieni in camera che ti mostro il mio Scramble” chiosò la sua fiancée tra il divertito e il rassegnato – soprattutto all’idea che il pranzo non sarebbe stato particolarmente ortodosso. If any.

Pochi minuti dopo, l’amico iniziò la sua partita a Scramble, la prima dopo dieci e passa anni. Non ricordo quanto durò, ma so che fece il giro dei cinque livelli almeno due volte. E intanto parlava, anche tradendo l’emozione, ma senza che ciò si ripercuotesse sulla sua esecuzione. Stava suonando un blues, un talking blues, il cui testo era la sua storia di Scramble. I pomeriggi da ragazzino al Centro Giochi Galaxy. L’esoterismo dei grandi campioni. Lo squallore delle scene che poco avevano a che fare coi videogame ma tanto con le sale giochi dei primi anni Ottanta (e anche dei secondi anni Ottanta, se è per quello).

E i pattern.

Immaginatevi un ciclo di otto battute in do settima, e otto in fa settima. O forse mi settima e la settima, più sepolcrale. All’infinito. Con sotto i suoni di Scramble. In una stanza da letto con le tapparelle abbassate, puzza/profumo di sigaretta, seduti sul bordo del letto, protesi verso il CRT del 486. Nel 1996. E sulla musica parte il talking dei pattern.

Missile al suolo : cinquanta punti. Missile in aria: ottanta. UFO: cento punti. Cisterna di combustibile: centocinquanta. E le mystery base: cento, duecento o trecento. La base finale: ben ottocento. Ai dieci punti ogni secondo, non ci badare. Impara a volare, impara a sparare, impara a bombardare. Vola lento solo se vuoi radere al suolo un gruppetto di bersagli. Appena oltre la cima di una montagna lancia due bombe e scendi in picchiata. Segui l’andamento del terreno, usa il laser orizzontale per i missili prima che diventino una minaccia.

Cristo, amico, Cristo-amico, di colpo trasformato dal gioco in un soldato del futuro. Nel corpo dell’adulto rivive il ragazzo, e io là, non più ragazzo e non ancora adulto, a meravigliarmi della potenza di tutte quelle cose insieme, la stanza buia e un po’ fumosa come una sala sala giochi ma no, è una stanza da letto, è tutto cambiato, da pubblico a privato, il CRT ancora lui come occhio immortale, come specchio viscerale che riporta indietro l’amico al suo sé passato, e lo fa ritrovare nelle nelle sue storie, e io nelle mie, ognuno col suo viaggio ognuno diverso, come diceva uno che a Bologna c’aveva bazzicato parecchio tempo prima. Ma non “ognuno infondo perso dentro ai fatti suoi”, quello no, anzi, uniti con la prepotenza di un fiume di luce, la tua storia è la mia storia, tu ti specchiavi nello stesso specchio, amico mio, e le tue manie erano le mie, a età diverse, in luoghi diversi, eppure è tutto chiaro, limpido, ma non è come la vecchia sigla di un programma TV, non c’è niente di pop in Scramble, è tutto underground. C’è una storia di eccentricità nei primi videogame, c’è un amore contrastato dalla ferrea durezza di quei coin-op fatti per spennarti, e tu li ami nonostante questo, macché nonostante, anzi, in virtù di ciò, nell’estenuante corteggiamento portato avanti tra una linea di scansione e l’altra.

“Ma com’è che non abbiamo MAI parlato dei giochi da sala giochi io e te?” Non so chi dei due ci rifletté per primo. Dalla mia, mi sembrava – ed era – più un tipo da civ.exe, e per qualche ragione non avevo sondato se era stato, prima ancora, frequentatore di bar e salette. Ma non era importante! C’era ancora questo fatto di vivere il presente, di domandarsi perché i Nirvana ci piacessero troppo più dei Pearl Jam, e se meritasse o meno ascoltare The Tea Party (il gruppo, non il partito). Ed ora saltava fuori pure questo layer bromantico di Scramble e i suoi fratelli.

Fratelli.

E poi?

E poi è successo che così come non ci interessava troppo del passato, non ci interessò troppo nemmeno del futuro. Strano, no? Perdersi di vista, intendo. Così normale, anche. Io che mi laureo, vado a lavorare a Milano, manco fossi andato a Vladivostok, però sì, Ding dong - la comparsata - non si poteva fare. E proprio quando mi ritrovai tra le mani il primo cellulare, ecco che smisi di usarlo. Eh, il lavoro. Eh, la salute dei cari. Eh, la prepotente smania erotica di donne milanesi nei confronti di un parvenu dalla faccia esoticamente slava.

Perduto. Ma chi ha perso chi? Chi per primo? Io, perennemente in fuga, forse con la paura di non meritarmi troppo affetto. O per troppo tempo. Ero così, in una certa fase della vita. Poi sono diventato solo più arido e stronzo. Poi invece meno, e piano piano ho riscoperto quel fatto dell’empatia verso altri esseri umani.

No, non abbastanza da dire “dai, provo a inventarmi un modo di contattarlo, l’amico.”

Oh, con calma.

Vabbe’ empatia, ma non esageriamo.

Mi chiamerà lui! Sicuramente.

Si sarà domandato che fine avrò mai fatto, no?

No?

Come ho appena fatto io, è scritto tutto qui sopra. Bravo. Pat pat.

Ora non gli basta che trovare questo testo. È su Internet, mica in un floppy disk.

Me lo merito! Quella volta gli ho portato Scramble e...

Sono esattamente quarant’anni che è uscito Scramble.

E esattamente vent’anni che sono uscito dalla sua vita.

“Senza un motivo” si dice, ma non è vero. Non è mai vero. È solo che il motivo siamo noi, e districare “noi” è sempre un casino, è sempre più un casino man mano che si invecchia.

Non siamo mica a Bologna negli anni Novanta, a scroccare banda all’Università.

Siamo di carne e di ossa che si son fatte pesanti

e pensanti

ma nello specchio nero

siamo ancora

sprite

accecanti

e

traballanti


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