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Santiago, Italia ti fa venir voglia di scrivere “Pinochet boia” sui muri (e pure qualche altra cosa)

Santiago, Italia ti fa venir voglia di scrivere “Pinochet boia” sui muri (e pure qualche altra cosa)

Più o meno tre anni fa, a Locarno, ho avuto la possibilità di assistere ad alcuni episodi di Death Row: si tratta di una serie di interviste rivolte a donne e uomini detenuti nel braccio della morte, condotte da Werner Herzog. Dopo la proiezione, il regista tedesco ha ragionato assieme al pubblico sull’essenza dell’essere un documentarista/reporter, spiegando che ci sono autori che scelgono di riportare la scena fedelmente e senza sporcarla, “restando immobili come mosche sul muro”, e altri che decidono di abbracciare l’imparzialità per “pungere come calabroni”. Per sua ammissione, Herzog ha sempre scelto la seconda strada, la medesima praticata da Nanni Moretti con Santiago, Italia. Il nuovo documentario del cineasta ricostruisce il colpo di stato avvenuto in Cile nel settembre del 1973, attraverso una serie di testimonianze raccolte sul campo e tessute in una rete narrativa suddivisa in tre atti.

Il primo si concentra sulle giornate attorno all’undici settembre e cerca di restituirne la tensione alternando interviste a chi c’era con filmati e documenti d'archivio, tra i quali spicca senz’altro il commovente discorso di commiato di Salvador Allende poco prima del suicidio. A seguire, Moretti raccoglie le testimonianze e i racconti di alcuni sopravvissuti ai massacri e alle torture che si sono consumati all’interno dello Stadio Nazionale di Santiago (temporaneamente trasformato in un enorme campo di concentramento) e a Villa Grimaldi. Si tratta di sostenitori di Allende e dell’Unità Popolare, messi fuorilegge attraverso il "decreto del 13 settembre" emanato dal generale Augusto Pinochet, alla testa del golpe.

Tra gli uomini e le donne intervistate, c’è chi riuscì a resistere alle torture senza fare nomi, spiegando che lo spettro del rimorso sarebbe stato ingestibile. Ma c’è pure chi ammette di essere stato catturato dai militari proprio a causa di cedimenti altrui. Ad essere completamente assente, invece, è il biasimo verso i compagni di sventura che furono costretti a "tradire": i supplizi inflitti dagli aguzzini dell’esercito, e descritti nel documentario fin nei minimi particolari, erano estremamente crudeli e resistere non era affatto facile. Moretti si limita a scegliere e registrare le testimonianze senza intervenire, lasciando filtrare sia il dolore che la commozione.

Laddove il racconto diventa deliberatamente parziale – per stessa ammissione del regista – è quando la macchina da presa si sposta verso coloro che presero parte attivamente al golpe. Davanti a ufficiali di alto grado che considerano ancora oggi la deposizione del governo Allende come un atto di patriottismo, il regista non riesce a nascondere una certa tensione. Tuttavia, a fargli perdere il controllo è l’atteggiamento di coloro che giustificano le torture e gli omicidi perpetrati attraverso la rigidità della catena di comando e un (presunto) distacco dalla politica proprio della professione militare.

Il regista nel carcere di Punta Peuco mentre intervista il militare Raúl Eduardo Iturriaga, condannato per omicidio e sequestro di persona.

La seconda parte del film, invece, si concentra sul ruolo spesso cruciale ricoperto da alcune ambasciate nel soccorrere i perseguitati in fuga. Soprattutto quella italiana, viene ricordata come una delle più generose e attive.

Qui il ritmo del documentario decelera un po’ e il tono si fa contestualmente più leggero. Molti dei testimoni interpellati, all’epoca erano ragazzi o addirittura bambini, e ricordano quelle giornate come una specie di gita. Chi aveva appena vent’anni racconta persino di avventure sentimentali consumatesi tra le mura dell’ambasciata. Non mancano altri aneddoti: dal momento che le cucine dovettero sobbarcarsi una discreta mole di lavoro extra, gli ospiti si prodigarono nel dare una mano organizzando dei turni. Tuttavia, ci fu chi venne espulso dal proprio partito perché si rifiutò di pelar patate.

Questa tranche relativamente lontana da sangue e torture permette a Moretti di prendere un po’ di fiato e, attraverso la celebrazione dell’umanità dimostrata dall’ambasciata italiana di fronte al “pull factor”, di sollevare una serie di analogie tra i rifugiati politici cileni di allora e le ondate migratorie di oggi.

L'ambasciata di Santiago del Cile.

Il confronto col presente torna nella terza e ultima parte del film, che si concentra sull’accoglienza offerta dagli italiani ai cileni raccolti nelle ambasciate. 

Ai rifugiati politici arrivati in Italia vennero forniti denaro, assistenza e lavoro. Molti di loro non erano mai stati fuori dal Cile e ricordano con meraviglia la prima sera passata in giro per Roma, a passeggio. Ricordano pure che l’Italia fu un modello di buona accoglienza: si celebrarono feste in onore dei rifugiati e la gente per strada offriva loro aiuto e solidarietà; il fascismo e la guerra scottavano ancora e molti ex partigiani rivedevano sé stessi in quei ragazzi lontani da casa. Ragazzi che oggi sono diventati adulti, hanno messo su famiglia e, nella maggior parte dei casi, si sono integrati perfettamente nel tessuto sociale.

Santiago, Italia, che ha chiuso il Torino Film Festival e verrà distribuito nelle sale a partire da oggi, è stato designato "Film della Critica" dal SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani) con la seguente motivazione:

Nell’affrontare una materia storica e storicizzata come il golpe cileno che portò alla dittatura di Pinochet, il regista riesce a coglierne il valore contemporaneo, non solo nelle ansie di un presente politico controverso e preoccupante, ma anche nel racconto di un’Italia che non c’è più, un Paese che ha smarrito il senso di solidarietà e del proprio essere comunitario.

Di contro, non sono mancate critiche gratuite nei confronti della pellicola da parte di Matteo Salvini, che attraverso un tweet ha parlato di un ritorno del “regista radical-chic”.

Premesso che Moretti potrà pure passare per antipatico e snob, ma è sempre stato apertamente critico anche nei confronti dei suoi stessi schieramenti politici, parlo di atteggiamenti gratuiti dal momento che gli equilibri narrativi di Santiago, Italia non mettono mai il presente davanti alla storia che raccontano. Semmai, è l’oggi che non può fare a meno di specchiarsi in certe robe brutte e, al riguardo, suona particolarmente centrata la risposta del regista, interrogato dal direttore di Repubblica sulle ragioni del film:

Mentre giravo, me lo chiedevano spesso e non sapevo cosa rispondere. Poi, finite le riprese, è diventato ministro dell’Interno Matteo Salvini e allora ho capito perché ho girato quel film. L’ho capito a posteriori.

Insomma, è proprio una questione di Zeitgeist, mica è colpa di Moretti se son tempi schifosi. Lui ha “soltanto” girato un documentario impeccabile, asciutto e chiaro nell’esposizione, oltre che perfettamente a suo agio nel passare dalla Storia con la “S” maiuscola a temi più intimi. Correte a guardarlo, se ne avete modo.

Ho avuto la possibilità di guardare Santiago, Italia in anteprima grazia a una proiezione stampa alla quale noialtri di Outcast siamo stati gentilmente invitati. Segnalo che oggi, in occasione dell'uscita nelle sale e del riconoscimento ricevuto dal SNCCI, lo stesso Moretti introdurrà il film a Roma, al cinema Nuovo Sacher, mentre domani, venerdì 7 dicembre, a Milano, ai cinema Anteo e Palestrina e a seguire in altre città italiane.

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