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Il futuro è passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti

Il futuro è passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti

Buonasera, sono davanti allo schermo del computer. È lunedì 19 marzo del 2018, sono le 17:58, e questo è l’esperimento temporale numero uno. Voglio far notare che l’orologio del mio MacBook è perfettamente sincronizzato con quelli del mio smartphone, del tablet, del Kindle, di Xbox One, di PlayStation 4 e di Switch, oltre che con quelli del termostato, del forno a microonde, del mio CASIO da polso, della sveglia in camera da letto, e per finire con i tre orologi a lancette appesi rispettivamente alle pareti dello studio, della cucina e del salotto (nonostante sia spesso in ritardo, voglio sempre sapere di quanto). Se i miei calcoli sono esatti – difficile - ne vedremo delle belle.

OK. Lo spostamento temporale è avvenuto esattamente alle sei pomeridiane e zero secondi. Questo è il mio primo articolo per Outcast che abbia viaggiato nel tempo. L’ho mandato dentro al passato. Otto ore nel passato, per essere esatti.

E precisamente alle dieci 10:00, giopep, a San Francisco, lo vedrà caricato in bozza sul sito.
— Andrea Peduzzi

Nel romanzo Ready Player One, tra le tante prove a cui viene sottoposto il giovane protagonista Wade Watts nel corso della sua caccia all’easter egg di Halliday, ce ne sono un paio in cui è costretto a recitare a memoria due classici del cinema degli anni Settanta e Ottanta: Monty Python e il Sacro Graal e Wargames - Giochi di guerra. Ora, fosse toccato a me, avrei fatto fiasco in ciascuna delle due situazioni. Eppure, se l’oggetto di una delle prove fosse stato Ritorno al futuro, sono sicuro che me la sarei cavata abbastanza bene.

Oddio, magari non avrei azzeccato millimetricamente tutto quanto il film (in realtà, quella mi pare una roba davvero impossibile, a prescindere), ma almeno un buon settanta per cento sì. E come plus mi sarei messo a cantilenare le pubblicità dell’epoca infilatesi nella mia specifica registrazione su VHS, con la sua bella custodia personalizzata dai cinemini ritagliati daVideo Magazine.

La ragione per la quale conosco a memoria quasi tutte le battute di Ritorno al futuro risiede banalmente nel fatto che, durante l’adolescenza, lo avrò guardato zilioni di volte: prima al cinema, poi in TV - dove fu mandato in onda per la prima volta, se non ricordo male, durante la vigilia di Natale del 1987 - e in videocassetta. Ora che ci penso, mi ero pure procurato il romanzo tratto dal film da leggere al mare (in italiano, con i centoquaranta chilometri al posto delle ottantotto miglia): per l'epoca, era un po' l'equivalente della visione via tablet. 

Ne parlavo qualche sera fa con Davide Moretto durante il fuori onda dell’ultima Intervista del Tentacolo: pure lui è un grandissimo appassionato del film di Zemeckis; da ragazzo si era addirittura comprato la videocassetta appena uscita a un prezzo da rapina, per poterselo guardare tutti i santi giorni.

Ora, sul momento non me la sono sentita di rubargli la battuta, ma in effetti pure io ai tempi avevo fatto la pazzia, obbligando la mammina a regalarmi la costosa (centocinquantamila) versione (lire) destinata (cazzo) al noleggio di Ritorno al futuro Parte II. Il terzo episodio, invece, lo avevo copiato attaccando assieme un paio di videoregistratori, e bon, ché evidentemente i miei si erano stancati di viziarmi.

Durante gli anni Ottanta e Novanta, nell’era pre-internet e pre-Netflix, al di fuori delle rarissime maratone fornite dai palinsesti televisivi e quelle ancora più rare nei cinema, l’unico binge watching concesso a noialtri ragazzini era possibile solo in videocassetta. E col fatto che le VHS che giravano per casa, anche nei casi più fortunati, non erano nemmeno paragonabili all’offerta odierna di roba in streaming, non era insolito andare in fissa per la solita manciata di film.

Ai tempi delle medie o durante i primissimi anni delle superiori, subito dopo il pranzo (o durante, se ero a casa per i fatti miei), lanciavo a rotazione Ritorno al futuro, Ghostbusters, Indiana Jones e l’ultima crociata, Blade Runner o Stand by Me. E se non c’era di meglio in TV, li tenevo di sottofondo anche mentre facevo i compiti, e pure mentre non li facevo, senza motivo. Arrivato all'ennesima visione, i film me li sciroppavo spesso così, a pezzi, tanto per scacciare la solitudine e far girare un po’ di rumore per casa. Più o meno come si fa con i dischi.

Poi, crescendo, ho pian piano sostituito i vari film dell'infanzia con quelli di Tarantino, di Scorsese o della Bigelow. Oppure con quelli di Allen, di Moretti o di Kurosawa, se mi sentivo particolarmente chic. Immagino sia un momento di passaggio abbastanza comune per un appassionato di cinema, quello in cui ti “fai il fondo” con i classici (all’epoca recuperati attraverso gli allegati in VHS di qualche rivista e/o quotidiano), e intanto inizi a esplorare la roba nuova nelle sale. È anche il momento in cui, magari, ti piglia la forza di leggere IT o Il Signore degli anelli, o tutti quegli altri libri che fino a poco tempo prima parevano dei giganti insormontabili.

Ad ogni modo, non è un caso che gran parte della cultura della citazione che pratichiamo oggi sia nata ai tempi delle VHS o dei DVD, per via della fruizione a nastro degli stessi quattro film. Anche il concetto di cult movie, nel tempo, è cambiato: non è che tutta la roba che usciva durante gli anni Settanta, gli Ottanta e i Novanta fosse necessariamente migliore di quella che gira adesso. Solo, a lucidare con gli occhi sempre le stesse cose, dopo un po’, queste prendono a brillare.

Mica come adesso, che con la disinvoltura delle varie piattaforme è già tanto se riesco a guardare un film più di due o tre volte. Per non parlare delle serie TV.

Ma al solito, sto divagando. Il punto è che se nel 1990 mi avessero chiesto quale fosse il mio film preferito, avrei risposto senza mezzi termini Ritorno al futuro. In fondo, come ho già scritto altrove, sono sempre stato ossessionato dal passare del tempo e dai viaggi nel tempo, unica panacea (im)possibile per guardare al di là dei miei anni.

Gli anni Cinquanta nella provincia americana, "A Nice Place to Live".

Uscito nel 1985, sia per forma che per contenuti, il primo Ritorno al futuro è figlio della prima metà del decennio, così come i due seguiti sono figli della seconda.

Esattamente come Casa Keaton, a cui resta intrecciato dalla presenza di Michael j. Fox, il film di Zemeckis è il frutto di un decennio piena di fiducia, di ritrovato ottimismo; di voglia di fare e di ballare. Un decennio che prendeva come esempio di buona società quello degli anni Cinquanta, un’età dell’oro vergine, innocente, che ancora non aveva assistito all’omicidio di Kennedy, allo scandalo Watergate e agli impicci di Nixon.

Nel passato novembrino del 1955 ricostruito dal film, i ragazzi che da lì a qualche anno sarebbero partiti per il Vietnam erano ancora impegnati a mangiare di nascosto la torta di mele appena sfornata dalla nonna, a bere Pepsi o a fare le corse in auto come James Dean, che era morto appena un mese prima.

Non è un caso che la moda dei primi anni Ottanta, con i capelli a banana e i giacchini e i jeans stretti, fosse la versione hardcore di quella dei Cinquanta; né che il rock avesse ridotto le sonorità folk dei due decenni precedenti per tornare a pasticciare con i testi disimpegnati, o per mescolarsi con l’elettronica e con il futuro.

E certamente non è un caso che Marty, superato lo shock iniziale, finisca per trovarsi così a suo agio nella Hill Valley degli anni Cinquanta: in fondo, tra le due epoche, tirava un po’ la stessa aria, al netto di certi libici inferoci.

Zemeckis, attento osservatore dello spirito dei tempi, aveva intuito perfettamente la natura ciclica della cultura popolare, soprattutto di quella partita dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’unica cosa che non aveva potuto prevedere era la brusca accelerata conseguente alla penetrazione di internet, ma per il resto, con i suoi film, è stato un pioniere del postmodernismo e di tutte quelle teorie sull’eterno presente. Noialtri ragazzetti che all’uscita dalle proiezioni di Ritorno al futuro o di Stand by Me ci tuffavamo in tutta la roba anni Cinquanta e Sessanta, magari correndo a recuperare qualche cassettina piena di hit di Elvis o Jerry Lee Lewis mescolate a casaccio, non eravamo poi molto diversi dai millennial che oggi guardano Stranger Things o il nuovo IT in preda a una sorta di nostalgia artificiale, né dai Gunter che inseguono l’eredità di Halliday.

Dal 2041, i capelli a punta e i jeans scoloriti in candeggina erano tornati di moda e le classifiche musicali erano dominate da band contemporanee che suonavano cover dei successi pop degli ottanta. Tutti coloro che erano stati ragazzini in quel decennio, ormai prossimi alla vecchiaia, stavano vivendo la strana esperienza di vedere gli stili e le tendenze della loro giovinezza abbracciati dai nipotini.
— Ready Player One

Ecco, bisogna dire che al di là di tutto questo discorso, Ritorno al futuro resta a tutt'oggi un film terribilmente buono, invecchiato splendidamente. Una macchina a orologeria con una sceneggiatura - scritta dal regista assieme a Bob Gale - perfetta fin nei minimi dettagli. Toh, per dirne mezzo: dopo che Marty abbatte con la DeLorean il pino del vecchio fattore Peabody, il Twin Pines Mall di Hill Valley si trasforma nel Lone Pine Mall.

Ritorno al futuro è un film sintetico, di quelli che non la tirano inutilmente per le lunghe e non sprecano un solo centimetro di pellicola in inutili dicascalie. E anche un film coraggioso: provateci voi, oggi, in una roba così per ragazzi, a infilare il fantasma dell’incesto, nascondendo tutta la morbosità dietro a un paio di battute.

«Vabbè, che c'entra? Te chiamo. Te mando i messaggini, quelli miei, piccantelli.».

E poi il cast: da quel momento in avanti Michael J. Fox per me (e per molti) è diventato Marty McFly, così come Christopher Lloyd è a tutti gli effetti "Doc" Emmett L. Brown. Lea Thompson - all’epoca carinissima - è e sarà sempre Lorraine; Crispin Glover, George e Thomas F. Wilson, Biff. E via così. Ecco, tranne che per James Tolkan: lui resta sempre lo “Stinger” di Top Gun.

Infine, ciliegina sul frappè, le musiche: dalle canzoni di Huey Lewis and the News (presente pure nel film con un cameo), al tema di Alan Silvestri, fino alle hit rivisitate come Heart Angel o Johnny B. Goode, nella cui celeberrima esecuzione Marty cita trent’anni di storia del rock.

Insomma, se lo chiedete a me, in Ritorno al futuro non c’è un capello fuori posto, mentre non mi sento di dire lo stesso del secondo episodio e del terzo, che vivono in una dimensione separata. Entrambi i seguiti, girati consecutivamente e mandati in sala tra il 1989 e il 1990, sono figli di un’America diversa. Per carità, sono senz’altro godibili e hanno i loro momenti: poche scene restituiscono meglio il concetto di “meritato riposo” di quella all’inizio di Ritorno al futuro - Parte III ambientato (ancora) nel 1955 di Howdy Doody.

«Fannulloni!»

Eppure, in generale riflettono un’estetica un po’ più sparata e differiscono dal film del 1985 per toni, misura e dimensione degli intrecci. Anche i più famosi tormentoni della saga («Cosa sei, McFly, un fifone?») partono solo dal secondo episodio e vengono rilanciati nel terzo.

Terminata la saga, Robert Zemeckis continuerà il suo ragionamento sulla natura circolare del tempo e sul rapporto tra destino e libero arbitrio attraverso La morte ti fa bella, Forrest Gump e Contact, che rappresenta assieme un punto di arrivo e un nodo di svolta per la sua poetica. Oggi, il regista dell’Illinois gira ancora ottimi film (penso a The Walk o Flight), ma secondo me non gli è ancora riuscito di replicare il colpaccio di Ritorno al futuro, a livello di, beh, tutto. Non gli è ancora riuscito di girare un altro “film perfetto”.

Premesso che questa cosa del “film perfetto” è una sparata del tutto soggettiva, amo moltissimi film, ma ce ne sono una manciata che considero arbitrariamente perfetti. Penso, Chessò, a Amadeus, a Manhattan e a Schindler’s List. Oppure a Il Padrino Parte II, a Pulp Fiction, a Barry Lyndon o a Max Max: Fury Road, giusto per citarne un po’ a casaccio. Ecco, tra tutti i “film perfetti”, Ritorno al futuro resta ancora oggi quello che preferisco in senso assoluto, e a questo punto - tenendo conto delle implicazioni anagrafiche e affettive della faccenda - è possibile che se ne resterà lì per sempre, in cima alla mia hit parade.

Il poster originale del film, lo stesso che oggi tengo appeso in salotto.

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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