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I Monty Python e l'ultima crociata - Giusto due cose sull’importanza del Graal in Ready Player One e in tutto il resto

I Monty Python e l'ultima crociata - Giusto due cose sull’importanza del Graal in Ready Player One e in tutto il resto

La ricerca del Santo Graal, non è archeologia: è una gara contro le forze del male. Se cadesse nelle mani dei nazisti, le armate delle tenebre marcerebbero su tutta quanta la Terra.
— Prof. Henry Walton Jones, Sr.

Quando mi sono preso il compito di scrivere di Monty Python e il Sacro Graal per la Cover Story di questo mese, ero pieno di incosciente ottimismo: “In fondo, che sarà mai”, pensavo: “Tutto sommato sono da sempre un fan di Terry Gilliam”.

In fondo, pur non avendo mai visto il film del gruppo comico britannico dedicato al Graal, anni fa andavo pazzo per cose come E ora qualcosa di completamente diverso (titolo affibbiato dalla distribuzione italiana, con un certo incidentale proposito, alla raccolta di Sketch della serie Il circo volante dei Monty Python), ma soprattutto per Brian di Nazareth, uscito originariamente nel 1979 ma sbarcato dalle nostre parti solo durante i primi anni Novanta. Ricordo che ai tempi del liceo, durante gli interminabili tornei a Sensible Soccer o ai vari Street Fighter II, lasciavamo sempre scorrere la videocassetta del film in loop, di sottofondo, per intrattenere i giocatori disimpegnati. E appena partivano gli sketch con Marco Pisellonio e cose così, si rideva tutti come dei pirla.

Bene, proprio per questa ragione, quando ho fatto partire Monty Python e il sacro graal, ero tutto contento, speranzoso di ritrovare un po’ di quel (non)senso di spensieratezza e delirio delle serate liceali. Tra l’altro, leggendo su Wikipedia di certe brutalità perpetrate sull’adattamento italiano, ho puntato dritto alla versione originale. E, beh, niente: mi sono annoiato a morte.

Forse sarà invecchiato male il film, forse sarò invecchiato male io, o forse entrambe le cose, per carità. Resta che al di là dei guizzi meta-cinematografici, del surrealismo di certe gag, delle animazioni stralunate di Terry Gilliam e dei dialoghi scritti con l’emisfero destro del cervello, non sono riuscito a entrare nel film (a differenza del protagonista del romanzo Ready Player One, che ci casca con tutte le scarpe). Capace che nella mia bestialità giovanile avessi apprezzato così tanto Brian di Nazareth per il doppiaggio in italiano (lapidatemi, crocefiggetemi, come vi pare), o per il fatto che lo si guardava in comunione e raramente in lucidità, boh.

Eppure, nonostante la mezza delusione, il film mi ha comunque messo addosso una gran voglia di graal (ci siamo passati tutti). Più che altro, da discreto appassionato del romanzo di Ernest Cline e di un certo immaginario pop degli anni Ottanta e Novanta, mi è presa la curiosità di ripassare due o tre rappresentazioni cinematografiche della mistica coppa. Di coglierne eventuali slittamenti di senso nel tentativo di intersecarli con quello del libro.

Così, nel giro di una settimana, mi sono rivisto Excalibur, Indiana Jones e l'ultima crociata e La leggenda del re pescatore. Tutte pellicole piuttosto facili da recuperare e relativamente mainstream: non mi sono addentrato poi chissà dove con la mia ricerca. Tuttavia, ho cercato di impostare un minimo di ordine e di provare a ragionare come un “Gunter”, ossia come i cercatori dell’easter egg nascosto dal miliardario, game designer e inventore James Halliday (dal libro ne esce come sorta di miscela tra Willie Wonka, Richard Garriott e Steve Wozniak) nell’universo virtuale OASIS.

Tra l’altro, in corso di lettura, avevo trovato un po’ fuori posto tutta l’importanza attribuita al film dei Monty Phyton, rispetto alla mitologia del romanzo. In fondo, il personaggio di Halliday, nato nel 1972, costruisce il suo rompicapo utilizzando come mattoncini i ricordi della sua adolescenza, trascorsa a mollo degli anni Ottanta, decennio verso cui coltiva (come l’autore del libro, come molti quarantenni di oggi) un vero e proprio culto feticistico.

Poi, però, ho afferrato: come viene messo in chiaro fin dall’inizio, Cline ricalca la caccia all’uovo sulla ricerca del Graal. Il nickname scelto dal protagonista è Parzifal, e proprio come il leggendario e quasi-omonimo cavaliere del ciclo arturiano, intraprende una “missione sacra”, il cui scopo ultimo è la ricostruzione di un regno, OASIS, orfano del suo sovrano, Halliday.

In quest’ottica, e tenendo conto della perfetta sovrapposizione anagrafica tra l’autore e il personaggio di Halliday, è plausibile che Monty Python e il Sacro Graal, uscito nel 1975, sia stato il primo film a portare il recipiente mistico all’attenzione di Cline.

Chiaramente l’ho messa giù a grana grossissima (come lo stesso Cline, del resto), ché ad avere il tempo e la voglia - mancano a me, figuriamoci a voi - si potrebbe parlare per ore dei significati nascosti del Graal, la coppa che secondo la tradizione venne consacrata da Gesù durante l'ultima cena, e che ha poi fatto da ricettacolo per il suo sangue dopo la crocifissione. Significati che si espanderebbero sul piano religioso, esoterico, alchemico, e chissà quale altro ancora.

In seno al libro e al film di prossima uscita, l’unico piano di lettura che forse ci può interessare è quello narrativo. Essendo un simbolo così sfaccettato, il Graal ha il potere di infilarsi sotto mentite spoglie in un sacco di storie: il tesoro di Willy l'Orbo ne I Goonies è un “Graal”, il corpo di Ray Brower in Stand by Me è un "Graal”; paradossalmente, persino l'arca dell'alleanza del primo Indiana Jones è un “Graal”. A prescindere dalle metafore, la coppa e i suoi derivati forniscono ai narratori un ottimo innesco per chiamare il protagonista all’avventura. Per trasformarlo da outsider, ribelle o persona ordinaria in eroe e, potenzialmente, in un nuovo “sovrano” in grado di ristabilire l’ordine delle cose. Inoltre, la presenza di un prezioso oggetto conteso genera automaticamente ombre, antagonisti, avventure, prove e viaggi; e tutto questo, Cline, che ha esperienze come sceneggiatore, lo sa molto bene.

Così, se per un ragazzino degli anni Ottanta il primo Graal “esplicito” potrebbe essere stato benissimo quello dei Monty Python, capace che il secondo sia stato quello rappresentato nel bellissimo film Excalibur, diretto dal cineasta inglese John Boorman e uscito nel 1981. Qui, la commedia sgangherata lascia il posto all’epica più classica: l’adattamento cinematografico del ciclo arturiano operato da Boorman è a tutt’oggi uno fra i più riusciti e, a mio modo di vedere, non è ancora stato superato. Nel cast ci sono un sacco di nomi che da lì a poco sarebbero diventati piuttosto celebri, mentre altri già lo erano: Gabriel Byrne, Nigel Terry, Patrick Stewart, Liam Neeson e Helen Mirren (tra l’altro, questi ultimi si conobbero sul set del film ed ebbero una relazione durata qualche anno).

Si capisce che ce n'è.

Al netto delle armature luccicanti e di un'estetica per certi versi fiabesca - in alcuni aspetti datata, in altri ancora anni luce avanti - il film di Boorman riesce a essere tremendamente sporco, ruvido e metallico. Costruisce la sua epica attraverso una dimensione realistica degli scontri, che spesso si riducono a goffe scazzottate nel fango, ma soprattutto di una magia che si appoggia con parsimonia a certi cliché del fantasy, come evocazioni o esplosioni, preferendo loro una dimensione druidica, pagana e pre-cristiana, dove erbe, droghe, radici e miscele contano più delle palle di fuoco.

Insomma, una figata senza se e senza ma: non è un caso che i veri Gunter lo considerino “canon”, così come nel canone di Halliday rientra, ovviamente, Indiana Jones e l’ultima crociata, probabilmente il film più popolare dedicato alla ricerca del Graal tra quelli della mia generazione. Uscito nel 1989 e diretto da Steven Spielberg, è, se lo chiedete a me, il più riuscito fra i tasselli della trilogia (sì) di Indiana Jones, anche solo per la presenza di Sean Connery, assolutamente perfetto nei panni di Henry Jones Sr.: la figura paterna a cui tutti, tranne lo stesso Indiana, vorremmo fare riferimento.

Nel film, il Graal ha un significato duplice: da una parte è quello che è, un oggetto mistico dai poteri immensi che non deve assolutamente finire nelle mani sbagliate. Dall’altro, funziona da catalizzatore per ricostruire il rapporto tra i ragazzi Jones, spezzatosi nel corso degli anni in adesione alla poetica “spielberghiana” più classica. Ormai, certe sequenze del film sono entrate nella memoria collettiva, come le catacombe zeppe di ratti a Venezia, il “firmacopie” del Führer e, naturalmente, tutta la parte finale delle prove e relativa scelta del calice.

«Ha scelto molto male!»

Per certi versi, Indiana Jones e l’ultima crociata rappresenta anche la chiusura del cerchio per un certo cinema di Spielberg, oltre che, probabilmente, l’applicazione più solerte del regista di Cincinnati di certe formule di sceneggiatura. Penso soprattutto al celebre manuale di Christopher Vogler, Il viaggio dell'eroe: cruciale per tutta generazione dei cosiddetti “movie brat” (lo stesso Spielberg, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, George Lucas, Brian De Palma, Joe Dante, eccetera) e a sua volta intimamente legato col mito, il folklore e - una cosa tira l’altra – con il Graal.

L’ultimo film che mi sono guardato, di contro, non sembrerebbe essere “canon”, per i Gunter. Oppure lo è, ma non mi pare venga mai nominato nel libro: è pur vero che si tratta di una pellicola del 1991, ma in fondo l’immaginario di Ready Player One, al di là della caccia al tesoro, si spinge oltre gli anni Duemila.

Comunque, dicevo, per chiudere la mia grossolana ricerca del Graal ho deciso di tornare al punto di partenza con La leggenda del re pescatore, diretto da Terry Gilliam. Lo stesso Gilliam che nel 1975 aveva co-diretto Monty Python e il Sacro Graal assieme a Terry Jones, per poi spiccare il volo con la sua carriera da solista da Brazil in avanti.

Girato in uno stile debordante e allucinato, La leggenda del re pescatore fa largo uso di grandangoli, inquadrature ravvicinate e arti artifici. Col fatto che non lo rivedevo da parecchi anni, mi è risultato un po’ datato nei costumi, in certe scelte cromatiche e nella fotografia, ma nel complesso direi che si difende ancora benissimo.

Jeff Bridges, qui in forma smagliante (ma quando mai non lo è?), veste i panni di Jack Lucas, conduttore radiofonico fallito che, in seguito a un’epifania, inizia a passare le sue giornate dietro ai vaneggiamenti del donchisciottesco senzatetto soprannominato "Parry" (Robin Williams), ossessionato dal Graal e preda di visioni psicotiche.

Per certi versi, vuoi per lo stile, vuoi per i contenuti, La leggenda del re pescatore potrebbe quasi fare da linea di confine tra le cacce al Graal degli anni Ottanta e quelle più sardoniche, intimiste e lisergiche degni anni Novanta (vedi Paura e delirio a Las Vegas, sempre di Gilliam). Nel film ci sono residui di certe avanguardie culturali degli anni Settanta, le stesse a cui afferivano i Monty Python, e c’è anche quello stile un po’ indeciso, da limbo, di fine Ottanta, ma nel complesso siamo davvero a due passi dal cinema che sarebbe venuto di lì a poco.

OK, grande cast, bravissimi Jeff Bridges, Robin Williams, Amanda Plummer e Mercedes Ruehl. Ma il cavaliere rosso non si batte.

La leggenda del re pescatore sigilla a colpi di chiodi la bara dello yuppismo e della Manhattan da bere (e da pippare), e anziché celebrare i campioni, racconta con sincera compassione i vinti. Il nuovo decennio è alle porte, e con lui un nuovo Graal: per Gilliam, la mitologica coppa è ormai uno stato dell’anima, una dimensione di serenità da conquistare a caro prezzo, rinunciando alla vanità e ai sogni di ricchezza. Una redenzione dal peccato. Per certi versi, la sua è una fra le rappresentazioni del Graal più religiose e sacre che abbia mai visto al cinema, nonché quella che rimanda con maggiore vigore, perlomeno a livello simbolico, a certi miti di morte e rinascita vicini al ciclo arturiano.

Alla fine, si può dire che, partendo da un film mai visto prima e con cui non sono entrato in sintonia, pure io ho intrapreso il mio bravo percorso fatto di avventure, botte e lazzi, fino a imbroccare il senso del Graal. Proprio come Parsifal, pensa te. E pensa pure le minchiate che scrivo passata una certa ora: meglio piantarla qua e bon.

Trovato (anche se io avrei scelto quello d'oro con tutti i brillocchi).

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo. Come al solito, se acquistate i film segnalati nel pezzo (o qualsiasi altra cosa) su Amazon passando dai seguenti link, una piccola percentuale di quello che spendete andrà a noi, senza alcun sovrapprezzo per voi. Se volete procedere su Amazon Italia dirigetevi qui, se preferite Amazon UK puntate qui.

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