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Videoverse: lo Shark non è una console ma l'adolescenza

Ad inizio anno ho giocato due avventure davvero ben scritte e che trattano un argomento comune, l’adolescenza e il coming of age. Una è Perfect Tides titolo d’esordio di Meredith Gran e l’altra è A Space for the unbound di Mojiken Studio, già autori dell’ottimo When the past was around. Il titolo di cui vi parlo oggi si inserisce di prepotenza in questo filone che sembra non avere fine. Condivide con i due titoli sopra anche la finestra temporale in cui sono ambientate le storie, cioè la fine degli anni Novanta e i primi Duemila. Per la precisione le vicende di Videoverse iniziano nel settembre del 2003 e qui due storie scorrono più o meno parallele. Una quella reale (ma pur sempre virtuale) tra i due adolescenti Emmet e Vivi e una quella virtuale tra Hanzo e Umi nel videogioco Feudal Fantasy. Quest’ultimo gira sulla ormai obsoleta console di fantasia Shark sviluppata dalla Kinmoku (il cui logo scimmiotta neanche troppo velatamente quello della Nintendo). Lucy Blundell è la sviluppatrice che si nasconde dietro l’alias Kinmoku e già autrice di One night stand. La Blundell assomiglia in maniera quasi pedissequa da un punto di vista autobiografico al protagonista Emmet, visto che anche lui è un inglese trasferito in Germania, è un nerd che ama i videogiochi, le riviste di videogiochi, le bibite gassate e disegnare. Ma la sua attività preferita rimane chattare con i suoi amici virtuali su quella console ad 1 bit ad una risoluzione di 640x480 che sta per giungere alla fine della sua carriera. Nonostante tutto, ha anche una videocamera per vedere delle sgranatissime facce, ma niente chat vocale. Si può solo digitare sulla tastiera.

Lo Shark in tutto il suo splendore (?!).

Il grandissimo lavoro fatto da Kinmoku è stato proprio quello di rendere credibile e dannatamente affascinante una app di messaggistica (Videoverse, appunto) dei primi anni 2000, quando adolescenti (ma non solo, perché i videogiochi sono per tutti, vero trentacinquenne NPC Nobu?) si scambiano pareri sulle ultime uscite, postano fanart o semplicemente si fanno compagnia. Le musiche, gli effetti sonori, la grafica pixellata, gli errori di battitura, le abbreviazioni, le emoticon, la velocità di scrittura diversa in base all’utente, la personalizzazione dell’avatar in stile Mii, la lentezza dei caricamenti, tutto contribuisce a rendere realistica e coinvolgente l’esperienza. Un salto indietro nel tempo, ma senza nessuna lettura in chiave nostalgica. Solo una fotografia di un tempo che ha segnato gli albori delle chat dedicate ai videogiochi, dove si potevano fare conoscenze con persone che condividevano gli stessi interessi. Un mondo che doveva reggersi su semplici regole di rispetto e buon senso: niente spoiler, non fornire informazioni personali, non imprecare o usare parolacce, essere gentili e aiutare gli altri utenti, denunciare chiunque infrange le regole. Ma nonostante i moderatori e gli utenti volenterosi, alcuni personaggi riescono a rovinare Videoverse, che rischia di diventare un luogo poco sicuro. 

La personalizzazione dell’avatar in stile Mii.

Videoverse è prima di tutto un gioco sulla tossicità delle chat, dove ad utenti educati si alternano troll che insultano tutti quelli che non la pensano come loro o sono diversi da loro. Quindi via a episodi di bullismo, parolacce, omofobia, sessismo, xenofobia, nudità, pedofilia e abilismo (che, per chi non lo sapesse, è la discriminazione nei confronti delle persone disabili). Dopo due decenni, la situazione non solo non è migliorata ma addirittura peggiorata, visto che in questo mondo iperconnesso si può chattare e commentare in qualsiasi posto e a qualsiasi ora. Non solo, mentre Emmet e Vivi aspettavano con pazienza una risposta anche per giorni o settimane, ora siamo tempestati da notifiche anche nei momenti più inopportuni. Quello su cui riflettere è che oggi ci siamo privati della solitudine. Tutto deve avvenire in tempo reale, la nostra mente è continuamente distratta da decine di input, che si tratti di musica dagli auricolari, messaggi vocali, telefonate, chat su varie piattaforme, video da guardare, nuovi articoli da leggere, giochi da provare. Come scrive Cal Newport in Minimalismo digitale, “Anche solo fino a poco tempo fa, come negli anni Novanta, era difficile raggiungere la privazione della solitudine. Nella quotidianità troppe situazioni ci costringevano a rimanere da soli con i nostri pensieri, che lo volessimo oppure no: mentre aspettavamo in coda, stipati in un affollato vagone della metropolitana, camminando per la strada o mentre curavamo il giardino. Oggi, come abbiamo appena visto, non è più così." Non è più così perché appena abbiamo qualche minuto con noi stessi, allunghiamo la mano e sblocchiamo il cellulare per controllare cosa c'è di nuovo. Dobbiamo riempire quel vuoto con qualsiasi cosa che ci distragga dal restare soli con i nostri pensieri. Emmet e Vivi avevano del tempo per pensare tra un collegamento (lento) e l’altro, vuoi perché uno doveva partire una settimana con i genitori, vuoi perché l’altra era impossibilitata fisicamente. Il gioco rende benissimo questa idea dell’attesa, un tempo fatto di ansia e di speranza, di preoccupazione e fiducia. Nel frattempo, i due protagonisti, restando soli nelle proprie camerette, si “immergevano nella solitudine, e in essa abbandonavano anche l’isolamento”, per usare le parole del poeta Wendell Berry. 

Emmet a caccia di troll per rendere Videoverse un luogo migliore e più inclusivo.

In secondo luogo, Videoverse è un gioco sul potere curativo e aggregativo dei videogiochi, alla faccia di recenti e imbarazzanti campagne di comunicazione dal titolo “stoppa il videogioco, connettiti alla vita”.  Mi ha riportato subito alla mente un’altra coppia, questa volta letteraria: Sam e Sadie in Tomorrow and tomorrow and tomorrow, il romanzo di Gabrielle Zevin il cui sottotitolo recita “questa non è una storia d’amore ma parla d’amore”. Anche Videoverse potrebbe sembrare di primo acchito una banale storia d’amore, ma non lo è. I videogiochi vengono usati dalla scrittrice come strumento per conoscersi, e in fondo è quello che fanno anche Emmet e Vivi. Usano il videogioco come scintilla per instaurare un’amicizia che forse si trasformerà in qualcosa di più o forse no. Ma non importa. L’importante è che grazie a Feudal Fantasy, allo Shark e a Videoverse le loro strade si sono incrociate. E si sono fatti forza l’un l’altra, indirizzando le loro vite verso sentieri che altrimenti sarebbero stati preclusi. Io obbligherei a giocare a Videoverse a tutti quei detrattori che vedono ancora nei giochini elettronici solo istigazione alla violenza, escapismo puro e “a profound waste of time”.

L’home page di Videoverse, dove si possono vedere, oltre alle pubblicità, anche a cosa hanno recentemente giocato i nostri amici.

Infine, per i più attenti, Videoverse è un rimando continuo ad altri videogiochi, dai più popolari a indie di nicchia dalla spiccata componente narrativa. Come sapete, a me interessano quasi esclusivamente i secondi e quando ho visto che tra i riferimenti c’era The Wreck, mi è venuto un tuffo al cuore. Questo gioco continua a comparire nella mia vita ancora a distanza di tempo e se non lo avete fatto vi consiglio vivamente di provarlo. Un’altra chicca che viene citata è Don’t make love del rimpianto Dario D’Ambra, che narra la storia tra due mantidi religiose sospese tra il desiderio di fare l’amore, rompere la relazione o andare avanti rimpiangendo per sempre il momento dell’innamoramento. Consiglio anche qua di fare un giro. 

Una delle attività preferite dalla community di Videoverse è quella di postare fanart e disegnini.

Ma oltre tutte queste letture, che già potrebbero bastare a valergli il merito di essere un ottimo titolo, quello che rende veramente speciale Videoverse è la metafora dietro lo Shark. Questa console dallo schermo monocromatico è giunta alla sua fine (obsolescenza programmata?) e sta per essere sostituita dalla nuova e performante Dolphin. Con Shark chiude anche il sistema di messaggistica Videoverse, per fare spazio a Ocean Online, che invece di gratuito sarà a pagamento. Beh, io credo che lo Shark rappresenti l’adolescenza, dove tutto è netto, o bianco o nero, non ci sono sfumature. Allo stesso tempo, le immagini sono sgranate, un pò come in Passage di Jason Rohrer, dove il futuro appare sì lontano, ma anche sfocato. Il design stesso della console è piuttosto goffo, non elegante, quasi fanciullesco. Al contrario, il Dolphin ha stile da vendere, fa girare giochi in 3D invece che 2D ed è a colori. In più, permetterà anche di usare la chat vocale. Il Dolphin è l’adulto dalle varie sfaccettature, sicuro di sé, dalle prestazioni eccellenti. Emmet e Vivi, entrambi quindicenni, si ritrovano a dover compiere questo passaggio hardware in tutti i sensi. Da un lato sono tristi per un mondo che sta per chiudere (lo Shark/adolescenza), dall’altro guardano speranzosi verso il futuro che li aspetta (Dolphin/adulto). Videoverse, alla fine, non è altro che un Bildungsroman moderno, brillante, commovente e sincero. E vi pare poco?