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The Hex è il Last Action Hero dei videogiochi

Ci sono persone - probabilmente migliori di me - che quando si avvicinano a un’opera con l’intenzione, magari, di scriverne, riescono comunque a godersela senza pensieri, certe che quando sarà il momento, i pensieri, le riflessioni e i ricordi emergeranno spontaneamente incastrandosi con armonia.

Purtroppo, io non funziono in questa maniera. In genere, il disturbo ossessivo-compulsivo si impadronisce completamente di me costringendomi a prendere appunti, a segnarmi questo e quello, altrimenti capace che me lo scordo, eh. Entro in ansia da prestazione, soprattutto quando incrocio qualcosa che mi va particolarmente a genio.

In quei casi, mentre una parte del mio cervello tira dritto con l’opera, l’altra – quella disturbata - inizia a smontarla. Gli appunti si fanno sempre più confusi, disordinati, veloci. Iniziano a fioccare le parole chiave, i post-it con le freccette e, alla fine, il godimento si sovrappone completamente all’analisi. Il che, da un lato, può anche essere divertente, stimolante e interattivo da fare il giro. Dall’altro, però, pure una grandissima rottura di coglioni. Senza contare che forse ci dovrei andare io, in analisi.

Comunque. In ordine di tempo, una delle ultime opere-trappola che mi sono capitate tra le mani è stata The Hex. Il gioco di Daniel Mullins mi ha letteralmente tormentato. È venuto a bussarmi mentre dormivo, mentre lavoravo e addirittura mentre giocavo ad altro. Una volta, persino mentre guidavo: mi è toccato accostare per segnarmi una roba sul telefono e levarmela finalmente dalla testa.

Tipo, i commenti degli utenti che si trasformano in piattaforme.

The Hex mi si è arrotolato addosso come un gomitolo di lana perfettamente tondo e coerente, ché se non avessi avuto da scriverne, me lo sarei tenuto così, bello bello. E invece ho avuto da filarlo e mi sono incasinato. Ho iniziato questa recensione circa tre settimane fa, con l’idea di consegnarla a giopep prima di Natale e buone feste a tutti peppè-peppè-pè-pè.

Per fare il figo, l’idea era di lanciarmi in un racconto tutto meta, che tentava di fare il verso alle dinamiche del gioco di Mullins. Risultato: uno schifo totale. Una roba talmente goffa, confusa e pretenziosa da far cascare le palle, vi giuro. Così, dopo aver gettato tutto nel cestino, ho deciso di fare un bagno di umiltà e sono tornato al punto di partenza.

Ossia, allo scorso dicembre, quando il capo di Outcast ha sparato le richieste per i canonici GOTY e io sono andato un po’ nel pallone. Sì, perché, di riffa o di raffa, avevo dribblato completamente un paio di giochi grossi come God of War e Marvel's Spider-Man, non mi ero esaltato come avrei voluto (dovuto?) con Detroit: Become Human ma, soprattutto, non mi ero ancora dedicato a Red Dead Redemption 2. Così, quando ero ormai rassegnato a spedire sul podio la mia gatta, mi è cascato dall’alto un codice di The Hex, titolo indipendente sviluppato da quel Daniel Mullins che tanto aveva gasato giopep ai tempi di Pony Island.

The Hex, probabilmente, non è stato la roba migliore in senso stretto che abbia sperimentato lo scorso anno, eh, ma sicuramente quella dal concept più brillante e senza dubbio la più coinvolgente a livello intellettuale. Uno di quei giochi a cui finisco per giocare anche quando non ci sto giocando, per dire.

Ancora una volta, Mullins ha adoperato il linguaggio dei videogiochi per parlare di videogiochi, spingendo gli utenti in un pozzo metareferenziale tanto intrigante a livello di spunti, quanto deliberatamente sgradevole nell’aspetto. In effetti, a guardarlo sulle prime, The Hex pare realizzato da un ragazzino delle medie con StencylWork o Game Maker.

La storia (non di nuovo) ha inizio in un’oscura locanda sospesa tra le atmosfere di Se una notte d'inverno un viaggiatore, Sei personaggi in cerca d’autore e Casablanca, popolata da gruppetto di avventori sui quali pende il presagio di un omicidio, proprio come in un racconto di Agatha Christie. Ho detto avventori, ma sarebbe stato più sensato dire avatar, dal momento che ciascuno dei presenti incarna lo stereotipo di un personaggio dei videogiochi. Oltre al barista, ci sono la versione Poochie di Sonic, un vecchio ruvido e dall’aria post-nucleare, una maga, un marine spaziale e, per ultimo, un tizio misterioso con il volto coperto da un punto interrogativo.

Via via che la storia prende a srotolarsi, il giocatore è chiamato a esplorare il passato di ciascun avventore, assumendone il controllo nel relativo minigame, mentre la cornice della locanda è regolata del linguaggio delle avventure grafiche. Ci sta, visto che dopo l’età dell’oro dei primi Novanta, il genere si è frammentato e le sue meccaniche – magari diluite - si sono infilate dovunque ci fosse da portare avanti uno straccio di racconto.

A un primo livello di senso, passando di genere in genere, l’indagine si coagula attorno a quello che è, a tutti gli effetti, un saggio dedicato al game design e al linguaggio dei videogiochi. Una cosa a metà tra certe robe di Kojima e Super Mario Maker. Tipo che, sul serio, se dovesse girarvi di spiegare a un ragazzino come si sia arrivati dagli arcade classici ai giochi moderni e come funzioni un videogioco, vi basterebbe mettergli in mano The Hex.

La cosa figa è che genere dopo genere, parallelamente alla storia e alla consapevolezza del giocatore, aumenta pure la qualità delle tessere ludiche. È vero che le sezioni iniziali, tipo quella platform o picchiaduro, sono più che altro dei riassuntini, dei simulacri delle controparti di rifermento. Ma più si va avanti, più le cose si fanno strutturate e complesse. Prendiamo lo strategico a turni, toh: per profondità di concept e svolgimento, potrebbe benissimo stare in piedi da solo.

Attraverso un escamotage, lo strategico a turni "inganna" a sua volta i cheat, inglobandoli nel design regolare.

In tutto questo va’ e vieni di codici e linguaggi, il rischio di perdere coesione e coerenza - il rischio mappazzone, insomma - era elevatissimo. Per scongiurarlo, Mullins ha avuto il colpo di genio di incollare i frammenti di gioco attraverso l’interfaccia di controllo, nella stessa maniera con cui i praticanti del kintsugi adoperano la resina e la polvere d’oro.

Tutti i giochi che compongono The Hex (e, conseguentemente, The Hex stesso) si appoggiano sugli stessi quattro tasti e sul mouse; sono le meccaniche ad adattarsi ai controlli, e non viceversa. Si parte proprio dall’ABC, anzi, dal WASD. Questo accorgimento all’apparenza banale non solo mantiene tutti i vari elettroni nell’orbita del nucleo, ma spiega in un sol boccone che l’interface design è parte integrante del game design. Che il secondo non esisterebbe senza il primo, insomma.

Il manifesto programmatico di The Hex.

E questa, per quanto macroscopica, è soltanto una delle millemila note che Mullins è stato in grado di nascondere tra le pieghe della sua opera. Così, accompagnato dalle deliziose musichette di Jonah Senzel, tra una riflessione sul bilanciamento e un’altra sui bug, il giocatore finisce per assorbire preziose nozioni sul linguaggio dei videogiochi assieme alle apparenti idiosincrasie.

Genere dopo genere, segni e meccaniche si incrociano, si scontrano e si mescolano, facendo emergere con evidenza le reciproche differenze. Così, se il nostro omino è in modalità sparatutto, non può interagire con un NPC proveniente da un gioco di ruolo, anche se ce l’ha lì di fianco. E non solo “perché no”, ma proprio in via di una evidente dissonanza prospettica.

Attraverso The Hex, vero e proprio medium, il game designer canadese si dà in pasto al giocatore. Si confida con lui, lo mette a parte delle sue ansie e delle sue gioie, lo fa riflettere sui vincoli che intersecano lo sviluppo di un videogioco, sui limiti e sulle possibilità del mercato e del lavoro in team. In definitiva, sul concetto stesso di creazione, facendo con i suoi avatar quello François Ozon ha fatto a suo tempo con gli astratti personificati.

Rompendo la quarta parete, Mullins celebra un patto di sangue (digitale) che permette a The Hex di svelare il suo significato più profondo: quello rituale.

Questo aspetto, in realtà, inizia a farsi strada nella testa del giocatore già quando gli avatar, stanchi di passare di ruolo in ruolo, iniziano a rivendicare una propria autonomia linguistica alla maniera degli androidi di Westworld o degli attanti di Propp. La stessa vicenda di Lazarus (nomen-omen) evoca concetti come la metempsicosi, la resurrezione, l’eterno ritorno e implica tutto un ragionamento sulla morfologia del racconto che mi/vi risparmio, anche perché non è detto che si vada a parare da qualche parte. :D

Occhio alla riflessione sulla natura dell'avatar.

Quello che invece non lascio nel piatto (per la gioia del Talarico) è tutto il meccanismo mitopoietico che, partendo dalle piccole cose - una piattaforma, un calcio volante - accompagna il giocatore sempre più su su su per la gerarchia creativa, fino all’origine stessa dell’artefatto, e pure oltre, attraversando nel frattempo tutte le convenzioni del caso, come la legge della triplicazione, il meccanismo di parricidio/sostituzione e cose così. Insomma, tutto il repertorio solito delle fregnacce mie.

In definitiva, The Hex è una figata totale. Giocateci, anche se la grafica, per l’80% del gioco, fa cagare e per il rimanente 20% è così-così. Giocateci, anche se il meccanismo, in fin dei conti, è un po’ troppo consapevole e ragionato. Giocateci, anche se Mullins è chiaramente un narcisista e un po’ se la mena. Fidatevi, uscirete dall’esperienza completamente trasformati. In fondo, è proprio quello che fanno i riti: trasformano.

Ho giocato a The Hex grazie a un codice gentilmente fornitomi da Quedex, che tra l’altro è diventato - tipo - il mio terzo amico su Steam (gli altri due sono bot, mi sa). La cosa divertente è che il gioco, a un certo punto, entra in modalità Psycho Mantis e inizia a far poppare su schermo dei finti-commenti in stile Steam, andando a spiare tra i contatti dell’utente. Risultato: ho incrociato solo commenti firmati da Quedex. The Hex è disponibile solo tramite download su PC.