Outcast

View Original

Quali margini di miglioramento, per The Division 2?

Per comprendere lo stato del videogioco contemporaneo, specie nella sua veste più di massa, forse può essere indicativo guardare al calendario che contraddistinguerà questo primo trimestre del 2019: a gennaio due titoli, come il remake Resident Evil 2 e l’insperato Kingdom Hearts III, dalla smaccata componente nostalgica; poco più in là, Apex Legends, il primo battle royale che sembra stia riuscendo, per davvero, a mettere in discussione il monopolio di Fortnite; poi, tra febbraio e marzo, Anthem e The Division 2, che fanno del gioco in cooperativa, rigorosamente online, il proprio motivo d’essere. Quello videoludico è un mercato gigantesco, in continua espansione, e c’è spazio per tutti, non solo quindi per le grandi produzioni, fra cui grossomodo possono rientrare i titoli sopracitati. Eppure, è proprio in quest’ultima categoria, quella del gioco di massa, che è presente una tra le fette di mercato più grandi, con dunque una crescente sfida, da parte dei grossi publisher, per mettere a punto un gioco che possa unire una porzione d’utenza tanto vasta quanto variegata. Il problema non è quindi il perché, ma il come eseguire operazioni del genere: dando un ascolto costante alla propria utenza? Oppure fornendo nuovi stimoli ai propri giocatori? È difficile a dirsi, ma dopo la prova della beta privata, sembrerebbe che The Division 2 sia andato in un’altra direzione ancora, che è quella dell’espansione, quasi ossessiva, delle attività disponibili, da sempre tallone d’Achille di produzioni rivali come Destiny; eppure, dopo questa prova, i risultati sollevano diversi dubbi.

Your browser doesn't support HTML5 audio

Outcast Weekly #36: The Division 2 Outcast Staff

Innanzitutto, ricoprire il giocatore di cose da fare sembra ormai essere diventata una cifra stilistica della maggior parte delle produzioni Ubisoft, nel bene e nel male: nel bene perché, banalmente, si premia di più il giocatore, che con settanta euro si vede garantito il rendimento del proprio investimento (che, nel caso di The Division 2, può protrarsi per quasi un anno dalla sua iniziale pubblicazione, stando alle promesse di Ubisoft sul continuo supporto, completamente gratuito, con nuovi contenuti); nel male, però, se le attività tendono ad assomigliarsi tutte, o magari non sono sorrette da un impianto ludico realmente appagante, possono portare con facilità alla noia. Per quanto ovvia possa sembrare questa considerazione, alla prova dei fatti non è sempre così scontata: c’è una componente discrezionale, va da sé, ma prendiamo un altro titolo Ubisoft, a cui sto giocando proprio in questo periodo, Far Cry: New Dawn. Un gioco pieno di attività, tutte abbastanza simili, probabilmente anche ripetitive, ma legate fra loro da un soddisfacente senso di esplorazione, e soprattutto da un gunplay responsivo e soddisfacente: se sparare è nelle proprie corde, il divertimento è assicurato.

Ecco, puntando su un sistema di combattimento abbastanza invecchiato con gli anni (quello degli sparatutto in terza persona con un forte uso delle coperture), e con un feedback delle armi che non sfigura ma di certo non eccelle, sin dal suo primo capitolo, The Division ha deciso di puntare le proprie fiches su altre componenti: la crescita del personaggio, ad esempio, ma anche l’ambientazione, con una New York innevata che riusciva a offrire scenari diversi, e ricchi di personalità, rispetto al mare magnum dei videogiochi post-apocalittici. Ora, il sistema di crescita è stato rinnovato, arricchito di opzioni e una grande libertà di building lasciata al giocatore; il problema è che a venire meno è stata l’ambientazione, decisamente meno coinvolgente. Sia chiaro, prima non era tutto rose e fiori: New York, per quanto suggestiva potesse essere, risultava a tratti dispersiva, con tutti quei palazzoni ammassati l’uno sull’altro, oltre ad avere una palette cromatica che andava a toccare sempre le stesse tonalità (il bianco della neve opposto al grigiore della grande mela); ma aveva una forte personalità, che sembra essere venuta meno con questa Washington estiva, più varia nei colori e nei luoghi ma fin troppo rimasticata da un immaginario post-apocalittico, che ha già ampiamente esplorato la deriva del predominio della natura sull’uomo, con parchi che diventano giungle e strade attraversate solo da cervi e altri animali selvatici, non più da automobili ora completamente inutilizzabili – sì, The Last of Us ha fatto scuola.

In ogni caso, le attività disponibili, si diceva, sono tante, ma la sensazione è che, in fin dei conti, finiscano tutte per assomigliarsi l’una all’altra. Missioni principali e secondarie, ma anche eventi casuali all’interno della mappa, oppure avamposti abitati da civili che di tanto in tanto possono essere invasi dai nemici, o ancora gli accampamenti, che aggiungono una componente gestionale – inedita per il gioco e, questa sì, con una gran capacità di diversificazione di gameplay, specie se riuscirà a collocarsi sulla scia di quanto già visto in giochi come Metal Gear Solid V, nel quale, pur partendo come qualcosa meramente opzionale, finiva per catturare l’utente, facendo scattare la caccia al miglior abitante da collocare nella Mother Base – e i cui abitanti, a loro volta, offrono altre missioni secondarie. Il problema di fondo, tuttavia, è intuibile: vai da zona A a zona B, uccidi il nemico. Vai da zona C a zona D e salva l’ostaggio.

Di nuovo: in titoli del genere, la ripetitività è connaturata, anche se mascherata da missioni apparentemente diverse. A limarla devono intervenire dinamiche collaterali. E considerando la nuova ambientazione abbastanza anonima e un sistema di cover shooting sì migliorato (per via soprattutto di una maggiore pesantezza nei movimenti del giocatori) ma comunque poco in linea con i canoni odierni, a farla da padrone in The Division 2 dovrebbe essere il sistema di crescita; stando a quanto visto dalla beta, almeno qui sembra che ci siano delle solidi basi su cui costruire un titolo che ha sì un ciclo di vita parecchio lungo davanti, ma che dovrà fronteggiare una concorrenza agguerrita, con la quale si scontrerà direttamente ad appena due settimane di distanza, ovvero i giorni che dividono il debutto di Anthem da quello del titolo Ubisoft. L’endgame, a tal proposito, anche più delle principali attività di gioco, potrebbe rappresentare il vero snodo per la sopravvivenza di entrambi i giochi. Questo ammesso che tutto il resto vada più o meno liscio; un aspetto da non dare per scontato. Il versante tecnico, ad esempio. Ho giocato la beta su una PlayStation 4 Pro e, nonostante questo, i cali di frame rate sono stati continui e invadenti, come anche il pop-in (texture che impiegavano anche svariati minuti per caricarsi); per non parlare, poi, di ‘modelli-trappola’ che incatenavano di volta in volta il mio avatar a tavolini o sedie di sorta. Almeno su questo, c’è speranza anche sul breve periodo. Per il resto, “vai a sapere”.