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Vi prego, non fate di Red Zone - 22 miglia di fuoco l'ennesimo buon film di Berg che scorderete di andare a vedere

Sono andato all’anteprima di Red Zone - 22 miglia di fuoco con in testa due cose.

La prima era il pomodorometro fermo a un misero ventidue per cento, che non significa necessariamente che il film faccia schifo, eh, ma sicuramente a un po’ di gente non è piaciuto.

La seconda riguardava il regista, Peter Berg. Uno che nel corso della sua carriera ha girato della roba davvero a modo tipo Battleship, Boston: Caccia all’uomo e Deepwater: Inferno sull'oceano, e ne ha prodotta o ideata di altrettanto buona come la serie TV Friday Night Lights o il più recente Hell or High Water.

Al di là di quello che mi passava per la testa, comunque, avevo delle sensazioni positive riguardo a questo Mile 22 (esatto: hanno sbroccato col titolo ma mantenuto le miglia). La storia mi pareva interessante e il contesto dello spionaggio mi va sempre a genio; inoltre, Berg è tornato a girare per l’ennesima volta col suo pupillo Mark Wahlberg e con John Malkovich, mentre la sceneggiatrice Lea Carpenter ha lavorato su un soggetto di Graham Roland, ferrato sul genere e recentemente showrunner della serie Jack Ryan per Amazon Prime Video.

Insomma, ci vedevo gli estremi per qualcosa di interessante e son contento di non essere stato smentito nei fatti, ché Red Zone - 22 miglia di fuoco non sarà perfetto al millimetro ma è un film solido, pieno di senso, violento e che si prende anche il tempo per sperimentare le sue cosine.

La storia, ambientata in Indonesia, segue un gruppo di agenti adibiti alle “black op” collaterali alla CIA, capitanato da James Silva (Mark Wahlberg). L’incarico prevede di scortare l’ufficiale di polizia asiatico Li Noor (interpretato dall’ottimo Iko Uwais) fino a un punto di prelievo che lo traghetterà fuori dall’Indonesia; in cambio del passaggio, la risorsa promette di fare lo sgambetto al proprio paese e di fornire informazioni cruciali all’ambasciata Americana. A gestire gli aspetti logistici dell’operazione è Bishop (John Malkovich), che opera a distanza via monitor e si muove come un direttore d’orchestra o, se volete, come un videogiocatore alle prese con uno strategico.

Le ventidue miglia del titolo si riferiscono invece al tragitto che Silva e i suoi dovranno coprire per raggiungere l’obiettivo. Tradotte, sono poco più di trentacinque chilometri; una distanza esigua durante la quale, ovviamente, faranno in tempo a esplodere mille casini.

Al netto delle stroncature affibbiate al film da parte della critica americana, a mio modo di vedere, le cose che non funzionano si contano davvero sulla punta delle dita di una mano mozza. La messa in scena, tanto per cominciare, è al limite del virtuosismo: utilizzando come punto di convergenza la stanza dei bottoni di Bishop, Berg adotta un montaggio ipercinetico à la Greengrass e mescola riprese da camera a mano con altre ricavate da radar, telecamere di sicurezze, smartphone e attrezzature belliche e digitali di ogni genere.

“Un altro stacco? Ma è il quarto in tre passi”.

Si tratta di una scelta linguistica coraggiosa e interessante a prescindere dall’esito, che comunque non è male, anzi. L’unico problema è che a volte tutto il flusso impiccia l’intreccio: è pur vero che il materiale di partenza è semplice - una galoppata dal punto A al punto B - ma visto che si parla di spionaggio, il canovaccio finisce inevitabilmente per sfibrarsi in tutta una serie di complicazioni e sottotrame a base di conflitti tra nazioni, doppi giochi e tutto il repertorio del caso.

Ad agevolare un po’ la leggibilità d’insieme ci pensa la fotografia, netta e pulitissima, che prende le suddette tecniche di ripresa così diverse tra loro e le impasta. Chiaro che poi, un certo tipo di ritmo e montaggio devono piacere. Io stesso, generalmente, tendo a preferire soluzioni più ferme, ma alla fine son pur sempre scelte e l’importante è che vengano gestite con tutti i crismi. Come in questo caso.

Venendo alla caratterizzazione e alla direzione del personaggi, beh, non sono male. La Carpenter fruga tra i cliché di genere come la faccenda dell’agente Kerr (la Lauren Cohan di The Walking Dead) che fatica a conciliare la vita familiare con un mestiere rischioso, logorante e sostanzialmente basato sulle menzogne. I dialoghi, forse, ci credono un po’ troppo, ma in generale i personaggi non sono banali e le loro bussole morali sono piuttosto fluide. Lo stesso caposquadra, Silva, è sostanzialmente uno spostato, un paranoico dalla psiche problematica che fa il paio con certi suoi antagonisti.

“Oddio, la cena!”.

Carina, a questo proposito, l’idea dei “tic” e dei trucchetti ricorrenti adottati da agenti e non per gestire lo stress: c’è quello che fa schioccare compulsivamente un braccialetto elastico, quello che medita e quello che porta sempre le stesse scarpe quando entra in azione, per scaramanzia.

Sul piano della violenza, Berg ha scelto di non lesinare su tagli, sangue, esplosioni e sporcizia, ed è riuscito a gestire bene un paio di scelte narrative particolarmente spigolose. Il film va e viene continuamente da ambienti chiusi a altri relativamente aperti, alternando in scioltezza guerriglia urbana e spy story.

Ci sono pure diversi scontri a mani nude fighi, che tuttavia tradiscono le differenze tra Iko Uwais, esperto di arti marziali, e tutti gli altri. Per fare un esempio: durante un bellissimo combattimento al chiuso tra Uwais e due ceffi pure pratici di botte, la regia – pur concitata - insiste meno sul montaggio per agevolare le coreografie.

Iko Uwais SPACCA TUTTO.

Di contro, quando a infilarsi nelle scene action ravvicinate è la Cohan, lo stesso montaggio spinge sull’acceleratore per nascondere i trucchi del mestiere, risultando particolarmente scattoso e confuso.

Tolto questo, comunque, ribadisco che Red Zone - 22 miglia di fuoco mi è piaciuto parecchio. Volendo andare per paragoni, siamo dalle parti di un Atomica bionda, ma più serio e meno iperbolico: anche qui l’azione è concentrata in una città straniera, mentre il racconto passa per il solito interrogatorio/flashback alla Spy Game. A volte il volume generale sale un po’ troppo per i miei gusti, ma meglio una roba così, piena di personalità e che si prende qualche rischio, piuttosto che i compitini perfettini.

In più, cosa affatto trascurabile, Berg riesce ad esprimere tutto quello che ha per le mani in un’ora e mezza circa: avercene.

Ho guardato Red Zone - 22 miglia di fuoco - in uscita oggi nelle sale - grazie a un’anteprima stampa alla quale siamo stati gentilmente invitati. Riguardo al doppiaggio in lingua italiana: mah, ho sentito di ben peggio.